Annamaria Sacchi, Corriere della Sera 29/11/2008, 29 novembre 2008
Dieci milioni di dollari per riportare in vita un mammuth. Ma non solo questo animale. Le nuove tecnologie utilizzate da Stephan Schuster e Webb Miller della Università della Pennsylvania che hanno consentito – come viene descritto su Nature – di decodificare sinora il 70% circa del patrimonio genetico dell’antico pachiderma, potrebbero fare rivivere qualsiasi altra specie estinta negli ultimi 60
Dieci milioni di dollari per riportare in vita un mammuth. Ma non solo questo animale. Le nuove tecnologie utilizzate da Stephan Schuster e Webb Miller della Università della Pennsylvania che hanno consentito – come viene descritto su Nature – di decodificare sinora il 70% circa del patrimonio genetico dell’antico pachiderma, potrebbero fare rivivere qualsiasi altra specie estinta negli ultimi 60.000 anni. Compreso l’uomo di Neanderthal. Schuster e Miller hanno utilizzato i peli di due esemplari di mammuth lanosi vissuti 20 mila e 60 mila anni fa (l’ultimo mammuth si estinse circa 4 mila anni fa), riuscendo a decifrare la sequenza di 3,3 miliardi di basi di Dna sulle oltre 4 miliardi che si ritiene costituiscano il genoma completo dell’animale. Grazie a due nuove «macchine codificatrici » è stato possibile avviare e completare l’analisi del genoma, partendo da frammenti antichi di Dna. «I dati che abbiamo raccolto – commenta Schuster’ rappresentano la più estesa descrizione del patrimonio genetico di una specie estinta. Abbiamo dimostrato che è possibile ottenere dall’analisi di Dna antico risultati simili a quelli conseguiti dagli studi sui genomi delle specie attualmente viventi». Ci sono ora le premesse per tramutare la fantascienza in realtà. Come riferisce Schuster al New York Times, operando direttamente sul patrimonio genetico di una cellula di elefante si potrebbe renderla simile a quella di un mammuth. La cellula in seguito verrebbe trasformata in un embrione, da impiantare poi in un elefante e ottenere così un animale vivo: un progetto del costo di 10 milioni di dollari. Lo stesso potrebbe avvenire per l’uomo di Neanderthal, di cui è prossima la ricostruzione dell’intero patrimonio genetico. In questo caso, spiega George Church tecnico del genoma alla Harvard Medical School, i problemi etici potrebbero essere superati lavorando su cellule dello scimpanzé (i cui geni sono simili per il 98% a quelli umani), per renderle simili a quello dell’uomo primitivo. L’embrione che ne deriverebbe potrebbe essere accresciuto da una femmina di scimpanzé. Roberto Furlani Michael Crichton, lo scrittore americano da poco scomparso, lo aveva immaginato in Jurassic Park: dinosauri clonati a partire da Dna fossile e riportati in vita su un’isola per animare un parco di divertimenti, di cui ben presto si perderà il controllo. Da oggi quella predizione è un po’ meno irreale, anche se certo non dietro l’angolo. Abbiamo la sequenza di tre quarti del genoma del glorioso mammuth lanoso, il quale a differenza del tirannosauro può contare su alcuni parenti stretti viventi, gli elefanti. Il materiale genetico estratto dal pelo del pachiderma congelato nel permafrost è di ottima qualità. Tuttavia, per dare carne e respiro a un insieme di pezzettini di Dna occorre aggirare ben altri ostacoli. Bisogna definire con un margine di errore accettabile le sequenze complete, confrontando molti genomi, poiché il Dna antico è frammentato, degradato e contaminato. Le sequenze vanno poi sintetizzate in un insieme adeguato di cromosomi, contenuti in nuclei cellulari, ma quelli congelati da migliaia di anni sono troppo danneggiati. Superate queste impervie difficoltà, gli scienziati dovranno poi estrarre cellule uovo di elefante e trasferirvi il nucleo artificiale, sperando che la miscela funzioni. Ottenuta la cellula uovo fertilizzata, attraverso l’inseminazione artificiale la si dovrà infine impiantare nell’utero di un’elefantessa. Si tratta di una procedura di riprogrammazione biologia quasi vertiginosa, al momento tecnicamente irrealizzabile anche se non impossibile sul piano teorico. Potrebbe però esistere, commenta su Nature il genetista Svante Pääbo, una scorciatoia. E’ annunciata fra pochi mesi la sequenza completa del genoma dell’ elefante africano. Dal confronto con quella del mammuth si potranno scoprire le regioni del genoma che sono variate in una specie e non nell’altra durante i sette milioni di anni di separazione. Se riuscissimo a capire quali mutazioni in quali geni hanno reso unico il mammuth, per mezzo dell’ingegneria genetica e degli incroci selettivi potremmo ottenere un elefante il più simile possibile a un mammuth. In un caso come nell’altro, i dubbi di opportunità non mancano. Per rifare una specie occorrerebbero più individui, diversi fra loro. Servirebbe anche un ecosistema dove inserirli, a meno di non farne attrazioni da zoo. Gli ingenti fondi necessari potrebbero essere spesi per salvare le specie sull’orlo dell’estinzione adesso, evitando così di doverle clonare dopo. Altri pensano invece che sia ingiusto comunque limitare la curiosità umana. Le nostre sensibilità rischiano però di essere messe ulteriormente alla prova dalle possibili applicazioni di queste tecniche a esseri strettamente imparentati all’uomo. Il prossimo sequenziamento di un genoma nucleare di specie estinta potrebbe infatti essere quello di un nostro cugino stretto, l’uomo di Neanderthal, scomparso poco meno di 30mila anni fa in Europa. E’ arduo pensare che le riserve etiche siano eliminabili ipotizzando semplicemente l’utilizzo di scimpanzé, piuttosto che di esseri umani, come «incubatori». A parte i rischi tecnici di fare pasticci, riportare in vita Neanderthal sfiderebbe la nostra solitudine di specie e i radicati convincimenti a essa connessi. E’ uno scenario fantascientifico, ma reale quanto basta per auspicare che forse, anziché ambire a far risorgere dal passato creature estinte, potremmo concentrarci su un obiettivo scientificamente assai più significativo: comprendere le basi genetiche delle differenze e degli adattamenti che hanno moltiplicato le specie nell’albero della vita. Telmo Pievani