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 2008  novembre 29 Sabato calendario

DAL NOSTRO INVIATO

NAPOLI – «Dottore, mi permetta una precisazione. Noi siamo del vecchio cuoio, siamo contro Sky e pay-tv perché per noi sono stati una rovina, con l’entrata delle televisioni si è creata l’industria del business. Noi siamo dell’epoca di Tutto il calcio minuto per minuto ».
Ad appena 41 anni, Vincenzo Busiello è un reduce. Un esemplare in estinzione di un mondo che negli ultimi anni è cambiato a velocità da centrifuga. Un fossile da curva. Anche nell’aspetto, fedele a codici estetici ormai desueti. Pizzetto con mosca, capelli a coda di cavallo, fisico massiccio. L’erede del celebre Palummella, altro nome da archeologia, considerato una delle incarnazioni della vera mentalità ultrà. Nei Forum di settore viene definito «uomo che non ha mai lucrato 100 lire». Non per questo un santo, ci mancherebbe. Ieri Busiello è entrato al Tribunale di Napoli per l’udienza preliminare del processo che lo vede accusato di associazione a delinquere. I suoi ultrà 72, domiciliati in curva B, nel dicembre 2006 avevano manifestato civilmente il proprio disappunto per la decisione dell’Ac Napoli di non concedere più cento biglietti omaggio a partita. Così, durante un Napoli-Frosinone, partì un pioggia di petardi, razzi e bombe carta che portò alle «porte chiuse» del San Paolo per la gara successiva contro il Mantova. Naturalmente il messaggio era andato a destinazione. Dalla partita seguente gli omaggi ai gruppi organizzati ripresero regolarmente.
Il passato e il presente della civiltà ultrà napoletana non si sono incrociati per un soffio. Appena uscito dall’aula dove aveva dibattuto dei «vecchi», il pubblico ministero Antonello Ardituro si è dovuto occupare dei nuovi, depositando la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti degli ormai celebri esponenti dei «N.I.S.S.», acronimo di Niente incontri solo scontri. Quelli che a pagamento deliziarono le notti della rivolta di Pianura con una violenza al calor bianco. Uno dei tanti gruppi che polverizzano la curva A. Anche loro hanno un leader, si chiama Dario Di Vicino, non ha ancora trent’anni. Nel 1998, durante gli scontri seguiti ad un Ternana-Napoli, si prese un lacrimogeno in faccia. Perse un occhio. Magro, capelli rigorosamente rasati. Completamente diverso dal collega anziano.
Le ultime dichiarazioni dei due capitifosi, una memoria ed un interrogatorio entrambi risalenti a novembre, mettono in luce le reciproche differenze, non soltanto di curva. Sottolineano il processo di degenerazione in corso nel mondo ultrà, dove i princìpi che fondavano quello che era uno stile di vita sono stati sostituiti con un gergo e un comportamento da delinquenza comune. Busiello – vale la pena ripetersi: tutt’altro che apparentabile a Madre Teresa di Calcutta, in passato è stato arrestato per il pestaggio e la spoliazione di alcuni tifosi laziali – dice sempre «siamo». Rivendica con orgoglio una appartenenza, un modo d’essere. E confessa di non ritrovarsi nei dirimpettai, i gruppi «nuovi» che monopolizzano la curva A. «Io gestisco il mio territorio, ma senza alcun ritorno personale. Lo faccio solo perché sono rispettato e rispetto le persone che come me sono vissute in un certo modo. Faccio entrare le persone per bene, e gli altri, quelli che vogliono rovinare l’immagine della curva, li faccio entrare solo se lasciano fuori le "pezze", ovvero gli striscioni. Non è una legge scritta, ma una regola che va seguita. Per la nuova generazione siamo degli scemi perché "non chiaviamo ’e paccheri", non facciamo sempre a botte. Non è così. E’ che abbiamo regole nostre, e intendiamo seguirle».
Gli atti giudiziari che riguardano gli ultrà assumono spesso valore antropologico. Sono finestre aperte su un mondo chiuso e ripiegato su se stesso, che si svela solo agli adepti. L’interrogatorio di Dario Di Vicino, reso in data 12 novembre, carcere di Poggioreale, è molto breve, ma illustra l’evoluzione della specie. La negazione di ciò che è evidente, il comportamento omertoso, lasciano intravedere la mutazione in atto nelle curve. «A quel che mi risulta, non esiste un gruppo organizzato di tifosi che si chiama "Niss", né tantomeno io ne sono il capo ». Chiamato a rispondere, Di Vicino dichiara che la parola «ultrà» lo lascia «del tutto indifferente». Le sue opere dimostrerebbero il contrario, visto che il personaggio risulta ben inserito nell’ambiente. Lui odia romanisti e laziali. Ma nel nome di ideali e interessi superiori come l’odio per la Polizia e la necessità di trovare reclute per «fare bordello» a Pianura, nel novembre 2007 si presenta ai funerali di Gabriele Sandri, il tifoso ucciso da un agente della Polstrada, allo scopo di fraternizzare nel cordoglio.
L’unica cosa che Di Vicino rivendica è l’appartenenza territoriale. «Io vado allo stadio con le persone del mio quartiere. Non mi identifico in un gruppo, ma nel mio quartiere». La piccola patria di Busiello è la curva, la sua è Pianura. Le differenze non finiscono qui, ma proseguono nel modo di approcciare la realtà. Il «vecchio » si racconta con orgoglio, il giovane nega l’evidenza, come la fuoriuscita dei «Niss» dal gruppo delle «Teste Matte», accusato di essere troppo moderato. «Non è vero che me ne sono andato. Con i miei amici abbiamo esposto quella "pezza" e quando poi ne abbiamo portato una più grande ci siamo spostati». Non c’era spazio per tutti. Una mera questione di metri quadrati, da assemblea di condominio. Come se una delle vicende più conosciute e discusse nel complesso ecosistema ultrà non fosse mai esistita. «Davvero, non mi risulta nulla di ciò che lei dice. Non so cosa voglia dire la parola ultrà».
Le parole di Busiello aderiscono meglio ad una idea diffusa e impropriamente romantica delle curve da stadio. Ma danno davvero la sensazione di appartenere a Tutto il calcio minuto per minuto,
un’epoca comunque finita. I silenzi del giovane capo dei «Niss» e dei suoi amici arrestati, tutti pronti a recitare nenie omertose, appartengono invece ad una sfera diversa. Meno evocativa, perché banalmente contigua alla criminalità comune, almeno secondo il giudizio della Procura. Ma utile a conoscere la materia di cui sono fatte oggi alcune realtà ultrà. A ricordarci che sediamo su una pentola pronta ad esplodere, non solo a Napoli.
Marco Imarisio