Roberto Stracca, Corriere della Sera 29/11/2008, 29 novembre 2008
«Una cosa sono i delinquenti, che vanno combattuti. Un’altra sono gli ultrà, con cui va costruito un dialogo»
«Una cosa sono i delinquenti, che vanno combattuti. Un’altra sono gli ultrà, con cui va costruito un dialogo». L’affermazione è di Antonio Manganelli, il capo della polizia, che nel giorno del suo insediamento aveva espresso un sogno: stadi senza forze dell’ordine. Sembrava un’utopia ma, giornata dopo giornata, sta diventando una meta raggiungibile. Perché è vero che i numeri, forniti dall’Osservatorio sulle manifestazioni sportive sull’ultima stagione, che parlano di incidenti in diminuzione e calo di feriti da stadio, vanno letti e interpretati. In 200 gare tra serie A, B e C e Dilettanti, quelle più a rischio, i tifosi ospiti sono stati fatti rimanere a casa. Ma un’altra curva, uno stadio con meno divieti (anche l’altroieri Il Riformista tuonava contro le decisioni del ministro dell’Interno, Roberto Maroni, che rendono l’andare alla partita di pallone un’odissea anche per un padre di famiglia), sono forse possibili. E non solo attraverso la repressione. Il nuovo questore di Roma, Giuseppe Caruso, vuole ripetere quanto fatto a Palermo: dialogo con le frange più dure della curva. La capitale è una piazza difficile, ma la volontà è ferma e decisa. I funzionari da campo, quelli che i vecchi ultrà li hanno visti crescere e ora si ritrovano con minorenni accecati da un odio senza motivo, lo ripetono da tempo: «Il muro contro muro non serve e fa solo il gioco di chi vuole alzare la tensione». E anche nell’Agenzia informazioni e sicurezza interna (l’ex Sisde), chiamata da quest’anno a monitorare in maniera più attenta la galassia delle curve, si va diffondendo un’idea: «Non v’è dubbio – si legge in un documento – che tra le fila degli ultrà vi siano delle persone che arrivano a sfruttare l’evento calcistico, con tutto il carosello che l’accompagna, per perpetrare atti vandalici e violenti. Eppure il fenomeno ultrà è anche e soprattutto altro, un mondo estremamente vivace, palpitante, ricco, che costituisce un potenziale sociale importante. necessario pensare a nuovi modi per arginare la violenza e l’aggressività, ma anche per valorizzare un bacino di energie ed emotività sociali forti ». Tutto questo mentre una corrente di pensiero che invita, un po’ come faceva il professore Keating con i suoi studenti ne «L’Attimo fuggente», a guardare il mondo delle curve da un’altra prospettiva si sta facendo, pian piano, largo. Fatta da chi, arrampicato su una balaustra o in piedi nel secondo anello, ha avuto una sorta di iniziazione alla vita. il caso di Enrico Brizzi, lo scrittore cresciuto nella curva Andrea Costa del Bologna. «La curva è l’unico grande centro di aggregazione giovanile. E non ci sono i mostri giunti da un passato remoto per massacrarci tutti mentre mangiamo i nostri "quattro salti in padella" in ciabatte davanti alla televisione». allineato e coperto Valerio Mastandrea, l’attore romano che una volta si presentò nel salotto televisivo di Maurizio Costanzo con il volto tumefatto per aver preso un seggiolino in faccia durante una trasferta al seguito della squadra giallorossa. «Non criminalizzate le curve» è il suo grido di battaglia. «Giornalisti e intellettuali il mondo della cultura ultrà e le curve non li conoscono proprio. Ci si facessero una bella immersione prima di sparare sentenze ». Magari attraverso la lettura di alcuni libri. Dove la curva non è il miglior mondo possibile. Ma neanche un girone infernale. Sentire Elisa Davoglio, una poetessa che non sognava Beckham, né di fare l’ultrà. Ma, per «Onore ai diffidati», si è calata tra odore acre dei lacrimogeni, cariche della polizia e regolamenti di conti per interessi economici. E dipinge così gli ultrà. «Hanno valori e ideali in una società che ne ha sempre di meno e dove la politica è sempre più di assente». Giovanni Francesio ha fatto il percorso inverso. Dopo una vita, o una buona fetta di essa, passata sugli spalti ha raccontato in «Tifare contro» quello che gli ultrà non dicono. «Ho fatto migliaia di chilometri di trasferte, sono stato coinvolto in scontri con tifosi avversari e forze dell’ordine. Sono scappato e ho avuto paura, ma ho provato le uniche emozioni collettive della mia vita, a gioire e soffrire insieme agli altri, a sentirmi parte di un mondo "libero e vero". Ma fuori di lì, nessuno aveva la più vaga idea di cosa fosse veramente quel mondo, per me cosi importante(...)un mondo schizofrenico, sempre impegnato a combattere contro tutto e tutti, compreso se stesso». Michele Monina, nel suo viaggio, ora ironico ora crudo, di «Ultimo stadio» annota, con acuto spirito di osservazione, quello che non va nelle domeniche della gente di curva. «Qui sono a casa mia» urla, alla fine, pur tra personaggi con enormi cicatrici in viso e una violenza incombente. Perché, come accade nei siti internet di controinformazione, nessuno parla mai di un mondo di angeli. Gli sbagli e gli errori degli stessi ultrà («Che hanno nella loro complessità sia la forza che la grande debolezza », spiega Enrico Brizzi) non vengono mai taciuti. Ma, allo stesso tempo, non ci stanno a passare sempre per demoni e, spesso, raccontano un’altra storia, rispetto alla vulgata ufficiale. E, soprattutto, vogliono la verità. Dall’11 novembre 2007, la domenica della tragedia di Gabriele Sandri, non c’è partita, internazionale o amichevole, in cui da tutte le curve d’Italia non parta la richiesta di «giustizia» per il tifoso laziale, ucciso da un agente di polizia. Tra le forze dell’ordine (-48%) e i tifosi (-20%) è calato il numero dei feriti. Anche se sono ancora troppe le partite con divieti, limitazioni e settori ospiti chiusi. I presidenti dei club non ci stanno. E si iscrivono anche loro al partito del dialogo. Di chi vuole un ritorno alla normalità. Anche attraverso il dialogo con gli ultrà. Roberto Stracca