Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  dicembre 04 Giovedì calendario

ALESSANDRA MAMM PER L’ESPRESSO, 4/12/2008

Single City Sono qui per restare. Aumentare. Colonizzare le città e piegarle ai loro desideri e bisogni. I single sono la razza che cresce più velocemente nel mondo sviluppato. E gli sta dando la propria fisionomia
Benvenuti a Single Town. La città di scapoli impenitenti, ragazze madri, misantropi, divorziati, donne in carriera, narcisisti cronici, vedovi indipendenti e pensionati ad alto reddito. Benvenuti nel pianeta di chi vuol vivere solo ma non isolato, e che secondo statistiche nel 2026 sarà circa un terzo della popolazione urbana nel mondo sviluppato. A loro, e alla loro agiata solitudine è dedicata la città creata da Droog & Kesselskramer, architetti e designer olandesi. Proiettata nel privato e nel più confortevole degli habitat, con le poltrone attraversate da radiatori perché il single non ha bisogno di scaldare un’intera casa, basta il suo corpo; con un occhio di bue luminoso che lo segue a ogni spostamento per risparmiare luce; col tavolo da single per il ristorante all’angolo e la tenda ’inganna ladri’ decorata da sagome umane, necessaria in appartamenti disabitati a lungo.
"Quando nella società mutano i paradigmi, l’architettura deve essere presente", affermano i designer olandesi. Che lanciano un messaggio: basta edifici standardizzati e oggetti universali, spostiamo l’ottica. Non progettiamo più le case, ma gli abitanti. Del resto, chi crede più a bisogni fissi di famiglie fisse sul modulo padre-madre-figlio-figlia? Come si può pensare a criteri inamovibili in una società liquida, per dirla alla Bauman, come la nostra? Come si costruisce sull’acqua?
Una volta era più facile. C’era il Territorio, parola abusata da urbanisti e architetti che negli anni Settanta credevano di poter dar forma all’informe delle città. Era solido e concreto, parlava di zone da recintare in piani regolatori, classi sociali definite, case per tutte le famiglie. La rivista dell’intellighentia eretica, l’’Alfabeta’ di Umberto Eco e Nanni Balestrini, sentì il bisogno di sancirne la fine, con la copertina ’Contro il territorio’. Negli edonistici anni Ottanta arriva il Paesaggio: volatile, in linea con l’euforia dell’epoca e la constatazione che le città si dilatano indifferenti a qualsiasi utopia urbanistica, le famiglie si sfaldano e comincia ad affacciarsi il ben più flessibile inquilino unico.
Ancora non siamo al totale individualismo del messaggio che lo sostituirà: l’Abitare. Suona ancor meglio in inglese: Housing. Con tutte le sue declinazioni: Public Housing, Social Housing, Co-housing. Protagonisti della nuova scena sono gli Abitanti, con vizi, vezzi e specifici bisogni. E se alla base della progettazione ci sono questi, se dalle case per tutti si deve passare alla casa per ciascuno, e se quel ciascuno sempre più spesso abita da solo, il primo nemico da battere è la normativa vigente. "Quella prassi che tende alla medietà. Case di medie dimensioni e ambienti mediamente grandi con destinazioni d’uso precise, specchi di esigenze familiari", spiega Luca Emanueli, architetto bellicoso che nel Padiglione italiano della Biennale architettura ha portato un video manifesto anti-norma. Ad esempio: invece di calcolare l’altezza di due metri e 70 come minima in ogni stanza, perché non la calcoliamo come media, per avere appartamenti molto più flessibili? Perché dare agli ambienti destinazioni fisse, al posto di lasciar liberi gli abitanti di usarli come vogliono? Perché non immaginare parti della casa che escono dalla dimensione privata? Insomma, perché pensare ancora che la casa media sia per una famiglia media di classe media, quando la famiglia media sta scomparendo? Francesco Garofalo, architetto e teorico, ha dedicato il Padiglione italiano dell’ultima Biennale di cui è stato curatore all’’Housing Italy’ con catalogo (Electa) denso di pensieri, progetti e suggerimenti su cosa può voler dire progettare ’la casa per ciascuno’.
Compito difficile, poiché quel ciascuno è una macchina desiderante, divisa per bisogni e abitudini di vita diverse. "La città odierna sembra regolata da un processo che privilegia una città di singoli piuttosto che di comunità", scrive l’urbanista Giovanni Caudo. Ma il desiderio di comunità è primario, e la sfida che oggi ogni architetto ha di fronte è "la novità di un abitare antico che si apre alla voglia di socialità". Per i single, bisogno primario. La risposta in una parola: il Co-housing. Grande condominio di persone che costruiscono il vicinato prima ancora dell’alloggio, dove si uniscono i vantaggi del vivere privato a quelli di gestire spazi condivisi: laboratori per il bricolage, palestre, stanze per gli ospiti, giardini, orti, persino auto in comune. Il tutto con grande beneficio ecologico-economico più amicale solidarietà tra vicini. Non è un utopia. In Scandinavia forme di Co-housing si sono cominciate a sperimentare dagli anni Sessanta, diffondendosi poi in Giappone, Stati Uniti, Australia. Ma si tratta di insediamenti in quartieri residenziali e periferici, e di comunità chiuse e socialmente simili: anziani benestanti o famigliole da Mulino Bianco.
Tutto questo fino alla nascita di Ballstone Place, prima vera Single Town nata qualche anno fa a Richmond, Virginia. Dedicata agli unici ad alto reddito, Ballstone è figlia di un’indagine di mercato che rivelò: 1. Non è vero che i single amano vivere in centro, anche loro preferiscono giardinetto, garage e soffitta al traffico e allo smog. Ma si adeguano al mini-appartamento in centro per la paura della solitudine; 2. Un single è disposto a pagare il 153 per cento in più di un padre di famiglia per l’affitto di casa; 3. Secondo l’U. S. Bureau sono 86 milioni le persone che vivono sole negli Stati Uniti, come Italia, Belgio, Svizzera, Austria insieme; 4. Il 42 per cento è di sesso maschile con forte propensione al consumo. Mettere i dati in mano a un’impresa immobiliare e trasformarli in quartiere residenziale fu tutt’uno.
Negli stessi anni a Berlino la sociologa Jutta Kamper ideò un progetto più radicale: un edificio per donne sole. Partì dai dati: 600 mila le berlinesi tra i 40 e i 70 anni che vivono sole, quasi tutte con desideri di socializzazione, tutte con l’esigenza di vivere in un luogo protetto. Ed ecco l’idea di una contemporanea ’Beginenhof’ che ironicamente prende il nome da quelle case-convento che nel Medioevo raccoglievano donne di diversi ceti ma identica fede e obbedienza ai principi evangelici. La sociologa ci mise tempo a trovare qualcuno disposto a finanziare la sua rinata comune di beghine, ma nel 2005 l’immobiliarista Kondor Wessels, unico maschio della nostra storia, ne abbracciò con entusiamo il ritorno. A Kreutzberg nella primavera 2008 spunta un bel palazzo dalle vetrate colorate, leggero e luminoso, ospite di appartamenti dalle diverse metrature (55, 75, 105 mq) a 2.200 euro a metro quadro. Qui vivere sole, ma non isolate, è legge. Una bacheca raccoglie messaggi di inviti a cena e serate ’pizza e cinema’, lezioni di yoga o passeggiate: le docenti, avvocati, medici, artiste o artigiane si scambiano consulenze e prestazioni in una condominiale banca del tempo. Rigidissima è la regola che il Beghinenhof sia proprietà di sole donne: gli uomini sono ammessi come ospiti temporanei. Il progetto prevede il coinvolgimento della proprietaria nella definizione interna di spazi e dettagli dell’appartamento, che l’architetto Barbara Brakenhoff ha voluto femminilmente mutevole.
Del resto la flessibilità sta nel Dna dei singoli, che possono in ogni momento della loro vita mutar d’accento e di pensiero e accoppiarsi felicemente. Per Stefano Boeri, architetto e direttore di ’Abitare’, costruire per i single è quasi contraddizione in termini. "Assistiamo invece a una mono-localizzazione delle nostre case, dove ogni stanza tende sempre più a ricoprire le funzioni di un intero appartamento". Una single-sindrome, dove i legami di elezione sostituiscono quelli di sangue e il confine fra vivere soli e vivere insieme diventa incerto. Vale per gruppi di studenti e gruppi di colleghi, famiglie con figli adulti che non schiodano di casa, anziani che tornano dai figli e baby sitter o badanti a tempo pieno, single per professione. Vale per una società incerta come quella di tutto l’Occidente. "Ciò di cui abbiamo bisogno", conclude Boeri, "non sono cellule abitative per singoli, ma case flessibili. Perché una rivoluzione degli stili di abitare è in atto e sta già bussando alle nostre porte". Lui la rivoluzione l’ha presa di petto e la sta mettendo in piedi in un quartiere ad alto tasso di co-housing a Seregno, vicino Milano, pronto per il 2009. Appartamenti mutevoli e mossi in altezza e larghezza, predisposti per ospitare soppalcature e pareti mobili, divisi da corti e cortili che possono essere comuni o privati, coperti o scoperti. Le ha definite ’residenze a geometrie variabili’, progettate per una società a geometria variabile. Dove tutti, ma proprio tutti, vorrebbero i loro 40 metri quadri di solitudine. Ma nessuno, proprio nessuno, vuole restare isolato.