La sfida tra banche e Stato per un tesoro da 30 miliardi di Francesco Ruggeri, Libero, 28/11/2008, 28 novembre 2008
FRANCESCO RUGGERI PER LIBERO DI VENERDI’ 28 NOVEMBRE
Trenta miliardi di euro carpiti allo Stato, in cambio della cessione di un capitale da 156.000. Non ci vuole un premio Nobel per accorgersi che sarebbe il più grande affare della storia della repubblica. Quella che stanno per mettere a segno i gruppi bancari italiani, nessuno escluso, ai danni del contribuente-risparmiatore già rovinato dalla truffa dei derivati. Prima di addentrarci nei dettagli tecnici, proviamo a riassumere la vicenda con poche righe. Da qualche anno gli istituti di credito di questo Paese, cioè i soggetti su cui la Banca d’Italia dovrebbe vigilare, ne sono diventati i proprietari assoluti. Violando il suo statuto ufficiale, che vietava una maggioranza privata, oltre che le più elementari norme sull’indipendenza di Palazzo Koch. Costretti ora dalla legge a cedere entro il 31 dicembre il pacchetto ”azionario” illecitamente accumulato (300.000 quote da 0.52 euro l’una, 156.000 euro il totale), per disfarsene pretendono di ricevere dallo Stato un grottesco corrispettivo. Equivalente, nelle stime più ardite, all’intero patrimonio della banca centrale: una cifra che sfiora i 30 miliardi. Aggiungendo in tal modo allo scandalo della privatizzazione di via Nazionale, indegno di uno Stato di diritto, la beffa di una stratosferica buonauscita. E poi dicono che trasgredire non paga.
Il parere dell’abi
’Con regolamento da adottare, è ridefinito l’assetto proprietario della Banca d’Italia, e sono disciplinate le modalità di trasferimento entro tre anni delle quote di partecipazione al capitale in possesso di soggetti diversi dallo Stato o da altri enti pubblici”. Il dl n.262 del 28 dicembre 2005, meglio noto come legge sul risparmio, parla chiaro. Entro fine 2008 l’istituto guidato da Mario Draghi dovrà tornare in mano pubblica. Il provvedimento porta la firma di Tremonti. Il quale, dopo il braccio di ferro con le banche azioniste sulla mancata sfiducia a Fazio e la sequela di crack finanziari (Parmalat in testa), ha inteso cancellare il sospetto - nient’affatto remoto - che la severità del controllore venisse annacquata dalla duplice natura dei suoi controllati. Per convincere i soci abusivi a togliere il disturbo, nella relazione allegata alla legge ha quindi messo sul piatto una liquidazione da 800 milioni. Basandola sui dividendi annuali che i detentori del capitale sociale avrebbero perso cedendolo: ossia quella cinquantina di milioni di euro l’anno (lo 0.5% delle riserve e il 10% dei frutti), intascati (ir)regolarmente dal 1999 a oggi in proporzione alle quote.
Trattandosi di soggetti che non avrebbero titolo per detenere il quasi 100% dei certificati di partecipazione, si potrebbe supporre che abbiano aderito all’offerta con trasporto. Sbagliato. L’Abi l’ha giudicata irrisoria, calcolando in 20-24 miliardi il patrimonio netto della banca centrale italiana. Da ambienti del credito c’è chi si è spinto fino a 30 miliardi di euro, conteggiando riserve auree (le terze al mondo) e immobili di pregio. Coi più moderati attestati, si fa per dire, sugli 8-10 miliardi. Il doppio del pacchetto aggiornato artificiosamente da Bnl quando l’azionista era il Tesoro. In realtà, se si facesse riferimento al mero valore iscritto a bilancio dai vari gruppi bancari, se ne ricaverebbe un prezzo irrilevante. A meno di non rivalutare in maniera arbitraria (e fittizia) la partecipazione storica. Grazie a un simile trucco contabile, la sola Intesa S.Paolo lucrerebbe dalla cessione un capital gain di ben 7 miliardi. Una manna dal cielo in tempi di ecatombe borsistiche. E proprio questo è il sogno kafkiano degli shareholder di via Nazionale: cogliere il momento di crisi per ripatrimonializzarsi con la vendita sovrastimata delle quote. Mimetizzando il provvedimento nel calderone del sostegno alle banche.
Eppure, in qualunque nazione civile, chi violasse la legge che governa la banca centrale (non un divieto di sosta) verrebbe piuttosto sanzionato. Non certo beneficiato con gratifiche miliardarie.
L’articolo 3 del precedente statuto di Bankitalia recitava testuale: ”In ogni caso dovrà essere assicurata la permanenza della partecipazione maggioritaria al capitale della Banca da parte di enti pubblici”. Era così dal 1936, quando un regio decreto espropriò le quote delle allora s.p.a. Ma il 6 marzo del 1992 Cossiga volle metterlo nero su bianco. Con l’inserimento di un apposito comma, perfettamente in vigore al varo del dl n.153 del 17 maggio 1999. Il decreto che coronò la privatizzazione delle fondazioni bancarie, iniziata col dl 356 del 1990, abolendo di fatto la fisionomia pubblicistica dell’assemblea dei partecipanti di Palazzo Koch. Ciò che appunto il presidente picconatore intendeva scongiurare. Ovvero l’eventualità che un delicatissimo ente con funzioni di vigilanza su stabilità, concorrenza ed emissioni delle banche, oltre che titolare del 15% della Bce, finisse in balìa di interessi di parte. Un’anomalia impensabile presso i nostri partner europei. Il capitale della Banque de France appartiene allo stato (legge 980 del 1993), quello della Bank of England dal 1946 è affidato a un incaricato del Tesoro inglese. E le azioni di Deutsche BundesBank sono federali dal ”57. In Italia invece Intesa S.Paolo e Unicredit possiedono insieme il 66% delle quote di via Nazionale. Con Monte dei Paschi, Banco di Sicilia, Carige e partecipanti minori si sfiora il 100%. Intesa più l’alleata Generali toccano da sole il 51.
il nodo tredicesime
Anche se il nuovo statuto ha cancellato dal 2006 la postilla cossighiana, in punto di diritto tutti gli atti della Banca d’Italia a partire dalla violazione statutaria sarebbero teoricamente invalidabili. Compresa la nomina di Draghi, e forse la stessa correzione dello statuto. A confermarcelo, qualche tempo fa, il massimo esperto giuridico in materia e civilista all’università di Bologna, Francesco Galgano. Su questo presupposto il vicepresidente di Adusbef denunciò Fazio e C., strappando nel 2005 un pronunciamento favorevole da un giudice di Lecce, nella causa pilota De Gaetanis contro Banca d’Italia. Il solito refrain difensivo per camuffare il vulnus non reggeva: l’assemblea dei soci non è un organismo formale. Ad essa spetta eleggere il Consiglio superiore, il quale a sua volta nomina il Direttorio, a cui il nuovo statuto trasferisce per giunta la competenza su ogni atto a rilevanza esterna. Ancora del Consiglio è la vigilanza interna, ed è compito dell’assemblea nominare i sindaci, approvare il bilancio, cambiare statuto. A un mese dalla deadline, il regolamento per rivedere l’assetto proprietario di Bankitalia non è ancora stato scritto. E visti i precedenti, non si può escludere un ennesimo tradimento del dettato di legge in zona Cesarini, confidando nel silenzio generale. In tal caso verrebbe perpetuato l’annoso conflitto di interessi in seno alla banca centrale. In un periodo in cui le relazioni pericolose coi suoi azionisti registrano picchi epocali. toccato a via Nazionale mettere a disposizione delle grandi banche 40 miliardi in titoli di stato di alta qualità del proprio portafoglio, da scambiare con asset scadenti, per aiutarle a superare la crisi di liquidità del crack derivati. La Camera ha inoltre licenziato due interventi di sostegno e garanzia per le banche in difficoltà, incaricando sempre Bankitalia di individuare gli istituti a rischio. E pensare che si sperava di detassare le tredicesime sfruttando le riserve auree. Tra poco saremo sì costretti ad usarle, ma come premio alle banche per aver barato.