Edmondo Rho, Panorama 4/12/2008, pagina 171, 4 dicembre 2008
Panorama, giovedì 4 dicembre 2008 Corre sul filo della crisi il private equity, ovvero l’investimento nel capitale di rischio di società generalmente non quotate ma ritenute con alto potenziale di sviluppo
Panorama, giovedì 4 dicembre 2008 Corre sul filo della crisi il private equity, ovvero l’investimento nel capitale di rischio di società generalmente non quotate ma ritenute con alto potenziale di sviluppo. I fondi di private equity, paragonati in passato alle locuste, con l’accusa di voracità devastante che spolperebbe le aziende, sono oggi in difficoltà. Tra gli ultimi esempi, la rinuncia della Banca Leonardo di Gerardo Braggiotti all’acquisto del fondo Bs, i cui partner hanno annunciato che porteranno la banca in tribunale chiedendo il rispetto del contratto firmato nel maggio scorso, prima che esplodesse la crisi dei mercati. «La festa è finita» riassume un esperto del settore «almeno metà degli operatori sul mercato chiuderà: la maggioranza perché ha perso soldi. Solo pochi fondi chiudono suddividendo tra gli investitori i guadagni». Uno di questi è il Magenta, messo in liquidazione dopo avere venduto a un consorzio cinese la Cifa, leader nei macchinari per il calcestruzzo, a un prezzo circa otto volte quello di acquisto nel 2006. In realtà il fondo Magenta è stato chiuso soprattutto a causa dei contrasti fra i tre partner Luciano Balbo, Edoardo Lanzavecchia e Luigi Sala. «Anche noi siamo gestori, come quelli dei fondi d’investimento, e veniamo valutati in base al rendimento» ricorda Lanzavecchia, ora partner del fondo Alpha. «Il private equity resta un’alternativa, più efficiente, alla borsa. Dopo la scrematura resteranno solo i gestori migliori. Quelli che non si bruciano con il cerino in mano». Una metafora che parte dalle ipervalutazioni date negli ultimi due-tre anni alle acquisizioni del private equity, quando le aziende sono state spesso pagate oltre 10 volte l’ebitda (il margine operativo lordo, che è alla base delle transazioni nel settore). Non solo, le banche che hanno finanziato le acquisizioni, oltre ai fondi stessi, si sono spesso scambiate le aziende, a valutazioni sempre più alte, creando una bolla che ora scoppia. «Molti investitori che si erano impegnati a dare soldi al private equity fanno marcia indietro, disposti a subire perdite oltre il 50 per cento di quanto versato, pur di uscirne» spiega un manager. Le difficoltà non risparmiano i grandi fondi europei, come per esempio Candover, Pai e Permira, che negli scorsi anni avevano acquisito, anche in Italia, a prezzi molto alti, aziende come Ferretti, Saeco, Seat Pg e Valentino. L’unico mercato rimasto attivo è quello delle operazioni sotto i 100 milioni di euro. Un settore in cui il gestore emergente in Italia è Simone Cimino con il suo gruppo Cape: tre fondi con una massa amministrata di 500 milioni di euro, tra cui il Cape Regione Sicilia che ha raccolto 40 milioni, e un quarto, il Cape Centro, in partenza a gennaio. «Il mercato è fermo anche perché il credito si è rarefatto, ormai l’effetto leva è 1 a 1: significa che devi mettere 50 milioni di capitale per avere 50 milioni di finanziamento» spiega Cimino, ricordando come fino all’anno scorso la leva fosse fino a quattro volte l’investimento dei soci. In tempi di crisi il private equity diventa però l’alternativa alla quotazione in borsa per piccole e medie aziende. Lo dimostra la Trafomec, umbra, che produce trasformatori elettrici (75 milioni il fatturato consolidato previsto quest’anno) e intendeva quotarsi. Invece è stata acquisita dai fondi del gruppo Cape e ora punta, con la riconferma dei manager, a espandersi in Cina e India. Edmondo Rho