Giuseppe Scaraffia, Il Sole-24 Ore 23/11/2008, pagina 37., 23 novembre 2008
Il Sole-24 Ore, domenica 23 novembre Il liquido verde si depositò in fondo al bicchiere. La mano con un anello di ametista incastonato nell’argento, posò su un cucchiaio traforato una zolletta di zucchero
Il Sole-24 Ore, domenica 23 novembre Il liquido verde si depositò in fondo al bicchiere. La mano con un anello di ametista incastonato nell’argento, posò su un cucchiaio traforato una zolletta di zucchero. Lasciò che il liquore la impregnasse mentre le volute della sigaretta egiziana salivano verso le cariatidi del soffitto del Café Royal. Poi un fiammifero diede fuoco allo zuccherino, caramellandolo rapidamente. Ma quell’incendio in miniatura venne lentamente spento da un rivolo d’acqua fredda. Sotto il suo influsso, l’assenzio cominciò a intorbidarsi, mentre si alzava un fresco odore di anice. Era la terza notte che Oscar Wilde trascorreva sveglio, sorseggiando la Fata Verde o la Strega Glauca, due dei tanti soprannomi dell’assenzio. Pronto a spiegare ai suoi ascoltatori, con la dolcezza suadente della sua voce, gli effetti di quella bevanda ambrata. «La prima fase assomiglia a una normale bevuta, nella seconda si cominciano a vedere cose mostruose e crudeli, ma se si tiene duro si entra nella terza fase, in cui si vedono le cose che si voglione vedere, cose meravigliose e bizzarre». Quella sera ormai era rimasto solo tra le dorature e i velluti del locale, ma lì era finalmente entrato nella terza fase, la più inebriante. Vicino a lui un cameriere in grembiule verde sta riordinando rumorosamente il locale. « ora di andare, signore». Ma Wilde, immerso nei paradisi dell’assenzio, non sembrò sentirlo. Poco dopo l’inserviente tornò con un secchio d’acqua e iniziò a lavare per terra. « chiuso. Temo che debba andarsene, signore». «Cameriere, innaffi i fiori?», gli chiese serenamente lo scrittore, ma l’altro non rispose e Wilde lo incalzò: «Cameriere, quali sono i tuoi fiori preferiti?» «Signore, devo proprio chiederle di andarsene, il tempo è scaduto». Ma Oscar, soddisfatto, concluse: «Scommetto che i tuoi fiori preferiti sono i tulipani». E mentre si allontanava sentì le pesanti corolle dei tulipani sfiorargli gli stinchi. Molto tempo dopo la Fata Verde venne ancora in soccorso a Wilde, esule, povero e malato, che usava le ultime forze per assaporarla nei caffè parigini. Fu lei a dargli la forza di sfidare l’orribile tappezzeria della sua stanza d’albergo: «La mia carta da parati ed io stiamo combattendo un duello mortale. Uno di noi due deve andarsene». Era sempre la Strega Glauca che aveva confortato le angosce degli artisti lucidi e raffinati, sensuali e disperati di quel secolo contradditorio. Gli occhi smarriti dei bevitori d’assenzio, diffusi in tutte le classi sociali, popolarono i quadri da Manet a Van Gogh fino a Picasso. Le interminabili notti di Baudelaire, di Toulouse-Lautrec e di tanti altri erano illuminate da quel verde veleno. «L’acqua, un liquido così impuro che ne basta una goccia per intorbidare l’assenzio», deprecava l’alcolizzato Alfred Jarry. Una storia contrastata che ritorna nel saggio vivace e attraente di Phil Baker, una documentata ricostruzione delle fortune del temibile liquore tra gli intellettuali. Malgrado i divieti che cercarono, agli esordi del Novecento, di frenare la colata dell’assenzio, Hemingway lo apprezzava molto. Qualche bicchiere della Fata Verde era perfetto per prepararlo alle amate corride. Quando si trasferì in Florida non esitava a procurarsi a Cuba l’indispensabile bevanda. «Una dose bastava a sostituire i giornali della sera, tutte le serate al caffè, gli ippocastani, i lenti e maestosi cavalli dei Boulevard esterni, le librerie, i chioschi, le gallerie, il Parc Montsouris». L’eroe di Per chi suona la campana non ha dubbi: «Dicono che faccia marcire il cervello, ma non ci credo. Non c’è niente come l’assenzio». Ma il vero, grande bevitore d’assenzio fu Verlaine, cui Jean Teulé – già autore di un seducente Io, François Villon (Neri Pozza) – dedica O Verlaine! un romanzo torbido, forte e terribile come l’assenzio. Aveva cominciato a berlo molto presto e non aveva mai smesso, anzi, come provavano le montagne dei piattini delle consumazioni, che si alzavano sul suo tavolino, aveva febbrilmente aumentato le dosi. Quando gli intimi, preoccupati, gli vuotavano di nascosto il bicchiere, quell’essere degradato e geniale, abbrutito e raffinato, poteva esplodere in memorabili scenate. Una volta aveva addirittura cercato di trafiggere un amico di vecchia data che cercava di fermarlo. Quando ripensava al soggiorno inglese con Rimbaud, «i giorni passati a vagabondare per le strade, deliranti ed ebbri di arte», gli tornava in mente «un’ondata carica dei profumi di una gioia terribile». Persino in ospedale gli infermieri chiudevano un occhio sulle bottigliette d’assenzio che gli amici gli infilavano sotti il cuscino. A 51 anni, quando l’eroe del romanzo, un giovane ammiratore, arriva dalla provincia per incontrarlo, Verlaine è malato di sifilide, diabete, soffio al cuore, cirrosi epatica, artrosi, polmonite. Vive in miserabili camere d’albergo, sature di odori malsani e di sporcizia. Lì giace ubriaco, completamente vestito sotto il lenzuolo, con i lunghi capelli infestati dai pidocchi. Intorno a lui si accapigliano due prostitute, rivali per quel cadavere vivente. Una discesa agli inferi che non può che affascinare quel giovane ammiratore, come ha affascinato gli studenti del Quartiere Latino e persino il prefetto Lépine che ha probito ai poliziotti di arrestarlo, malgrado le sue continue intemperanze. Raccontando l’Odissea di Verlaine, Teulé ritrae sapientemente la Parigi del momento e una serie di personaggi vissuti intorno al poeta. Dal grande quanto eccentrico ritrattista Henri-Albert Cazals, vestito come un Incroyable del primo Ottocento, a Bibi-La-Miseria, autonominatosi segretario del poeta. Inseparabile dal suo logoro cilindro, sormontato da un’alta piuma di pavone, e da un consunto cappotto da cerimonia, Bibì approfitterà della sua carica per rubare, ai funerali di Verlaine, gli ombrelli dei convenuti. Non di tutti però, perché erano quasi diecimila, malgrado il freddo umido di quel gennaio. «Per me, aveva scritto Verlaine, la gloria è soltanto un umile effimero assenzio preso di nascosto». Giuseppe Scaraffia