Roberto Capezzuoli, Il Sole-24 Ore 23/11/2008, pagina 6., 23 novembre 2008
Il Sole-24 Ore, domenica 23 novembre Nella prima metà di luglio, quando le quotazioni nelle borse petrolifere stazionavano oltre i 140 dollari al barile, nessuno avrebbe immaginato che il West Texas Intermediate (Wti), il greggio di riferimento del Nordamerica, avrebbe perso due terzi del suo valore in poco più di 4 mesi
Il Sole-24 Ore, domenica 23 novembre Nella prima metà di luglio, quando le quotazioni nelle borse petrolifere stazionavano oltre i 140 dollari al barile, nessuno avrebbe immaginato che il West Texas Intermediate (Wti), il greggio di riferimento del Nordamerica, avrebbe perso due terzi del suo valore in poco più di 4 mesi. E soprattutto nessuno avrebbe immaginato che una discesa sotto quota 50 dollari, come è avvenuto giovedì scorso, sarebbe stata considerata una iattura. L’impatto sugli investimenti Invece è accaduto. A lamentare la precipitosa retromarcia dei prezzi non è soltanto il fronte dei grandi produttori. Anche l’Agenzia internazionale dell’Energia (Aie), che rappresenta gli interessi di 28 Paesi consumatori dell’Ocse, mostra preoccupazione: la debolezza del mercato si confermerà anche nel 2009, in linea con gli indicatori economici, «ma se il trend al ribasso proseguirà – sostiene Fatih Birol, chief economist dell’Aie – sarà un pessimo segnale». Infatti molti investimenti necessari per garantire adeguate risorse nei prossimi anni saranno cancellati, specialmente nei Paesi esterni al Cartello dei produttori, quelli dove è maggiormente avvertibile la severa contrazione del credito. Lo scenario descritto da Birol per il 2010 è allarmante. L’economia in ripresa farà ripartire la domanda di greggio e di fronte alla carenza di offerta si rischia che i prezzi superino, e di molto, i picchi visti quest’anno. Un nuovo shock petrolifero potrebbe dunque essere scatenato dalle ceneri di quello a cui abbiamo appena assistito. Previsioni negative Che il 2009 sia destinato a far stringere la cinghia ai Paesi produttori, dopo un quadriennio faraonico, è ormai opinione diffusa. opportuno però ricordare che le previsioni sono quanto di più flessibile esista al mondo. All’inizio dell’estate Alexej Miller, ceo della major russa Gazprom, si diceva convinto di vedere entro un paio di anni le quotazioni del barile volare verso i 250 dollari. Un pronostico che non si può ancora accantonare con sollievo, ma al quale si è sovrapposto, oscurandolo, il parere espresso un paio di settimane orsono dal ministro russo delle Finanze, Alexei Kudrin, secondo cui il prezzo medio del greggio l’anno prossimo sarà di 50 dollari. Anche i più accesi fautori del Toro si stanno convertendo. Gli analisti della Goldman Sachs, ascoltatissimi da quando, nel marzo 2005, predissero il sorpasso dei 100 dollari in pochi anni, oggi sostengono che la media del 2009 dovrebbe assestarsi intorno a 80 dollari, ma non escludono «lunghi periodi» a quota 50. Il gruppo, dopo le traversìe e il forzato assottigliamento delle attività sui derivati, ha cancellato qualunque raccomandazione call, all’acquisto, disconoscendo sia la previsione di giugno (Wti a 200 dollari entro due anni) sia quella di metà settembre, quando Goldman Sachs parlava ancora di una quotazione media di 148 dollari nel 2009. Opec in difficoltà L’Opec guarda con attenzione alla situazione critica, dimostrando che ha tutta l’intenzione di piegare il mercato alle sue necessità. Prima ha prosciugato l’offerta che eccedeva il tetto produttivo che si era autoimposto, poi al meeting tenuto a Vienna il 24 ottobre ha tagliato l’estrazione di un milione e mezzo di barili al giorno, infine ha indetto un nuovo incontro per la settimana prossima al Cairo. Nella capitale egiziana si verificherà se si stia allargando la frattura tra "falchi" e "colombe", due partiti in cui si fronteggiano di fatto i Paesi più ricchi e quelli a cui, invece, sarebbe necessario un greggio a 90-100 dollari per sanare i bilanci e per coprire costi di produzione in ascesa. A sentire il presidente del Cartello, il ministro algerino Chakib Khelil, al Cairo non sarà presa nessuna decisione, anche se «la domanda di petrolio è calata molto e gli stock sono troppo alti». Ma al meeting che presiederà il 17 dicembre "in casa", nella città algerina di Oran, Khelil promette da parte dell’Opec «una decisione importante», che sia essa una nuova forte chiusura dei rubinetti (2 milioni di barili in meno?) o un’ipotesi diversa, capace di agire sui prezzi di vendita. Consumi in discesa Lo schieramento dei consumatori nel frattempo lancia segnali negativi dal fronte della domanda. Quando, nel maggio 2005, il Wti si avvicinava ai 50 dollari al barile, il Fondo Monetario Internazionale temeva severi contraccolpi sull’economia mondiale. Oggi, con prezzi allo stesso livello, ma in fase discendente, è la crisi dell’economia che esercita una spinta negativa sui prezzi. La domanda di petrolio sta cominciando a calare anche in Asia e in Australia, ma è la situazione negli Stati Uniti quella più preoccupante, oltre a essere quella più influente in termini di volume. Al Nymex, la borsa americana dell’energia, il Wti ha perso quasi il 67% rispetto ai massimi storici di luglio, ma il future sulla benzina Rbob (reformulated blendstock for oxygenate blending) è passato addirittura dai 3,571 $/gallone del 3 luglio a 1,007 $ di giovedì, cedendo quasi il 72%. Gli automobilisti americani ora possono contare su un prezzo medio alla pompa che è inferiore a 2 dollari per gallone, ma ciononostante disertano le strade. Quel che resta della speculazione sui mercati a termine è oggi tutto short, al ribasso. Le opzioni che davano il diritto di acquistare futures sul Wti per consegna in dicembre a 200 dollari erano uno sfizio equiparabile a un tagliando (perdente) del Superenalotto, e ora sono nel cestino. Ma lo sono anche molte opzioni call a 55 dollari, il cui esercizio era da dichiarare lunedì scorso. Nafta senza acquirenti Il mercato fisico non presenta però un panorama così depresso, se si esclude la scarsissima richiesta di nafta, segnale, almeno all’apparenza, di un grave malessere per tutta l’industria petrolchimica. Per il resto invece i margini della raffinazione sono quasi nulli negli Usa e ancora positivi in Europa. E gli stoccaggi in molti Paesi produttori non sembrano stracolmi di petrolio, come si potrebbe pensare. Certamente però gli acquirenti sono in grado di cercare le offerte migliori, trascurando quelle che considerano troppo costose (come quelle libiche) o quelle assottigliate da una crisi del credito più acuta che altrove (come in Iran). Per una volta, le speranze sono comuni a produttori e consumatori: per entrambi l’auspicio è che non si verifichi la previsione di Deutsche Bank, secondo cui in primavera il "grande Orso" schiaccerà i prezzi sotto quota 40 dollari. Un livello, vale la pena ricordarlo, inferiore quasi del 50% al costo marginale del greggio, quello dei nuovi progetti per le sabbie bituminose del Canada. Progetti che, non a caso, si stanno fermando. Roberto Capezzuoli r.capezzuoli@ilsole24ore.com