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 2008  novembre 27 Giovedì calendario

CON UNA LETTERA DI PRECISAZIONE ALLA FINE

FOCUS CORRIERE DELLA SERA LE NUOVE TECNOLOGIE MILITARI

Il cambiamento La caccia ai terroristi è mutata con l’impiego massiccio dei droni, i velivoli con sensori e missili a guida laser
I numeri I robot volanti sono in grado di rimanere oltre 20 ore sulla zona di operazioni. Nel 2008 le ore di volo sono 130 mila
Guerra telecomandata. Da Las Vegas
In Nevada, nella base degli aerei senza pilota Missioni in Iraq guidate a migliaia di km di distanza

INDIAN SPRINGS (Nevada) – E’ come se i terroristi avessero costantemente il puntino rosso di un mirino sulla testa. Un raggio invisibile che li segue in ogni momento della loro vita clandestina. Un segnale che in una manciata di secondi può determinare la loro fine. A cambiare in modo radicale la caccia ai terroristi in Iraq e in Afghanistan è stato l’impiego massiccio dei droni, gli aerei senza pilota, gli Unmanned aerial vehicle (Uav). Macchine volanti in grado di rimanere per oltre venti ore sulla zona di operazioni. Con telecamere che registrano ogni singolo movimento, con sensori capaci di penetrare i muri dei covi, con missili a guida laser in grado di incenerire il bersaglio. Con una particolarità. L’Uav parte da una pista in Afghanistan, ma l’equipaggio – pilota e addetto alle armi – lo comanda via satellite da una base nel deserto a nord di Las Vegas, ad appena trenta minuti dai casinò.
E’ la Creech Air Force Base di Indian Springs, che abbiamo potuto visitare seguendo le missioni a migliaia di chilometri di distanza. Il paesaggio che circonda l’installazione, in continua crescita, è selvaggio. Deserto, arbusti e montagne spellate a fare da cornice. Attorno vi è solo un enorme poligono di tiro e pochi chilometri più a sud un carcere di massima sicurezza. La quiete del nulla è interrotta, ogni tanto, dal ronzio di un Predator Mq1 o di un Reaper Mq9. Gli Uav in addestramento fanno rumore solo quando decollano. Ma quando raggiungono la quota non li vedi e non li senti. Per questo terrorizzano i terroristi lungo la frontiera afghano-pachistana o in una cittadina irachena.
«Siamo contenti che i nemici abbiano paura di noi. Loro non sanno dove siamo. Devono sempre essere fortunati. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto», dice il colonnello Christopher R. Chambliss, il comandante del 432d Wing. «Ogni volta che si ha notizia di un’azione terroristica bloccata e non si conosce il motivo è possibile che sia merito nostro».
«Nostro», per Chambliss, è la flotta di Uav armati impiegati sui fronti caldi. Una trentina di velivoli ai quali si sommano a quelli schierati dalla Cia. «Noi agiamo in Iraq e Afghanistan», precisa Chambliss lasciando intendere che siano i robot volanti dell’intelligence a fare il lavoro sporco in Pakistan. Macchine letali. «E’ vero, abbiamo cambiato la strategia e la tattica nell’inseguimento degli avversari. Una vera rivoluzione – prosegue il colonnello ”. Solo i droni possono restare così a lungo in volo». Nel gergo del Pentagono è la «presenza persistente». Uno o più Predator pattugliano un’area estesa, rimangono lì in attesa che il bersaglio metta fuori la testa dal buco dove si è rintanato o lo raggiungono nel suo nascondiglio. La telecamera di bordo lo segue per ore. E quando è il momento, in stretta consultazione con il comando, gli ufficiali a terra e gli 007, si decide cosa fare. Una flessibilità che mette a disposizione del Pentagono un’infinità di opzioni e rende l’esistenza dei terroristi una roulette.
Impiegato per la prima volta nel 2001 come ricognitore, il Predator è diventato un’arma dopo un mezzo fallimento. La storia racconta che un Uav avesse avvistato un convoglio di jeep in Afghanistan con a bordo un personaggio qaedista, forse lo stesso Bin Laden. Ma la preda era riuscita a fuggire perché la reazione non era stata veloce. Adesso sarebbe arduo scappare. Gli americani non hanno impiegato troppo tempo per rimediare: già nel novembre 2002 un drone ha ucciso sei estremisti nello Yemen. Sotto le ali i Predator hanno due missili a guida laser Hellfire. Il gemello, il Reaper, porta lo stesso carico di un caccia F16, quindi missili e bombe sofisticate. Con costi infinitamente più bassi.
Una volta il Pentagono richiedeva che prima di ogni attacco la presenza di un «bersaglio di alto valore» - in codice Htv - fosse accertata al 90%. Ora si accontenta del 50-60%. E dunque le missioni sono aumentate a livello esponenziale. «Nel 2006 abbiamo registrato 50 mila ore di volo, nel 2007 80 mila, nel 2008 130 mila», precisa il colonnello Chambliss, confermando che le richieste di intervento sono altissime.
Cia e Us Air Force hanno intensificato i raid a partire da agosto, quando la Casa Bianca ha autorizzato un’offensiva contro i quadri qaedisti. Nel mirino sono finiti capi e installazioni. Sul versante pachistano i droni hanno colpito in oltre 30 casi, eliminando figure di rilievo. A gennaio hanno ucciso Abu Laith Al Libi, importante comandante militare. A marzo Abu Suleyman Jazairi, responsabile del «fronte esterno». A luglio Abu Khabab, il capo delle ricerche sulle armi di distruzione di massa per Al Qaeda. A ottobre Khalid Habib, dirigente di formazioni parami-litari, e Abu Jihad Al Masri, punto di riferimento dei jihadisti egiziani. A novembre Abdullah Azzam, esponente saudita, e forse Rashid Rauf, mente del famoso complotto con l’esplosivo liquido.
I generali americani hanno potuto contare su un budget robusto. Se nel 2007 avevano avuto 1,3 miliardi di dollari per i droni, nel 2008 la cifra è salita a 3 miliardi. E’ in programma la costruzione di nuove basi per gli Uav in Afghanistan per avvicinarli al fronte. Ad un drone schierato a Bagdad sono sufficienti 10 minuti per portarsi sulla zona assegnata, in Afghanistan servono anche tre ore.
Il ricorso ai velivoli senza pilota, come spiega il colonnello Chambliss, ha poi altri vantaggi. Intanto si riducono i rischi di danni collaterali, le uccisioni di civili innocenti. Gli apparati elettronici installati a bordo permettono di «vedere» meglio e danno ai piloti maggiore tempo per capire. Il secondo aspetto riguarda la gestione. La manutenzione è ridotta – dopo ogni 100 ore di volo – rispetto a quello di un F16. I mezzi costano «poco»: 4 milioni di dollari per un Predator, 12 per un Reaper. Per formare un pilota di caccia serve almeno un anno e mezzo, per quello di un drone 6-9 mesi. Il vero nemico è il tempo. Con condizioni atmosferiche cattive l’Uav ha qualche problema, ma i tecnici stanno lavorando per renderlo meno vulnerabile.
Difetti minori rispetto a quanto conseguito. Gli esperti statunitensi ritengono che la presenza continua dei droni al confine afghano-pachistano abbia costretto i leader qaedisti a maggiore prudenza e dunque inciso, in qualche modo, sulla catena di comando. Anche il braccio propagandistico jihadista ne avrebbe risentito. I militanti hanno minacciato di compiere attentati in Pakistan se non cesseranno le incursioni dei Reaper. Islamabad protesta pubblicamente per i raid americani - accusano - ma, di fatto, li autorizza. Una reazione che dice di più di ogni altra analisi. Se i terroristi hanno paura a Indian Springs sono solo felici.
Guido Olimpio


Video e joystick nella cabina di pilotaggio «Vedo la morte in diretta, poi torno a casa»

INDIAN SPRINGS (Nevada) – Il pilota è seduto alla console, controlla il lento volo dell’Uav con un joystick. Davanti a sé su un video le immagini trasmesse dalla telecamera piantata sul muso del drone. A fianco l’operatore, l’uomo delle armi. Il team è seduto in una piccola cabina di controllo, una stanza fitta di computer. Quando sono in missione è un equipaggio basato in Afghanistan o in Iraq che segue le fasi iniziali del decollo, ma pochi istanti dopo sono loro ad ereditare i comandi, qui nella base di Indian Springs. Operazione che si ripete all’inverso quando il velivolo rientra.
Incontriamo John – nome necessariamente di fantasia per ragioni di sicurezza ”, un’esperienza unica la sua. Fino al 2004 era ai comandi di un gigantesco B52, ora «guida» un drone che a confronto è un moscerino.
« un’arma perfetta, precisa, che ha introdotto un nuovo modo di combattere – racconta ”. Il problema più grosso è che non "senti" l’aereo, anche se posso dire di toccare la terra pur essendo così lontano da dove sta agendo l’Uav».

John va fiero delle sue missioni di ricognizione, quando, comportandosi come uno scout, scruta una strada o un quartiere. «Possiamo dare assistenza alla fanteria, aiutiamo ad eliminare gli ordigni nascosti per colpire una pattuglia, segnaliamo cosa c’è dietro una collina».
Ai problemi tecnici si aggiungono quelli emotivi. Il sergente Steven Dello Russo, origini italiane, moglie italiana, ne sottolinea uno. «Stai seduto qui dentro al centro di controllo, magari lanci un paio di missili, vedi la morte in diretta e a fine turno torni a casa. Potremmo dire che ti porti la guerra a casa. E non è che ti metti a parlare di quello che hai fatto con i tuoi i figli». Certo, fa un certo effetto pensare che il team «vola» via satellite sui monti afghani, osserva sperduti villaggi e poi si ritrova a dormire a due metri dai superhotel di Las Vegas.
Il profilo di missione – precisa Dello Russo – prevede quattro ore ai comandi, un’ora di riposo, altre quattro ore alla console. Durante quel periodo non ci si può alzare a meno di non essere autorizzati. Ma in quel caso deve subentrare la riserva. Il drone deve sempre essere gestito in coppia. «Infatti, parliamo molto tra di noi – aggiunge Tim, un pilota di Reaper ”. Mi consulto spesso con l’operatore delle armi. In ogni caso siamo assistiti da un gran numero di informazioni. Quando siamo in ricognizione dobbiamo pensare a quello che potrebbe accadere ». L’Uav può, infatti, seguire per ore una vettura sospetta, magari può essere un veicolo-bomba in avvicinamento ad un obiettivo. più agevole farlo su una strada sterrata afghana che in una via trafficata di Mosul. In alcune occasioni è come se interpretassero il ruolo del poliziotto in borghese che pedina una persona. Solo che lo fanno da migliaia di chilometri d’altezza.
Quello che colpisce è il volto e l’età degli equipaggi. Alcuni sono appena ventenni, come i loro colleghi schierati a Bagdad e Kabul. Viene spontaneo chiedere se a volte non pensino di essere giocatori e attori di un videogame. Le condizioni ci sono tutte. Tecnologia, video, tutto è pulito. Ma loro respingono il paragone in quanto quello che vedono è reale, tremendamente vero. Non c’è il tasto «esci» o «salva». Là sotto si crepa per davvero e loro sono come dei cecchini del cielo che al posto del fucile imbracciano un missile.
G.O.






E l’Italia ordina quattro Reaper armati: 330 milioni di dollari

INDIAN SPRINGS (Nevada) – L’Italia, che già impiega una coppia di Predator da ricognizione con il contingente in Afghanistan, avrà presto i Reaper armati. Il ministero della Difesa ha infatti avanzato una richiesta per l’acquisto di quattro velivoli senza pilota. Nel pacchetto è prevista l’acquisizione di tre stazioni di controllo e di un programma di assistenza di 5 anni per la manutenzione, i test, la preparazione del personale, i pezzi di ricambio. Costo del contratto: 330 milioni di dollari.
A Indian Springs si sono già addestrati, in passato, i team dei Predator poi inviati a Kabul per sostenere le nostre truppe schierate con l’alleanza. Anche l’aviazione tedesca ha espresso interesse per l’acquisizione di alcuni droni nella versione da ricognizione, dunque senza armi. Il successo degli Uav sta mettendo a dura prova la produzione e anche il ciclo di addestramento con una conseguente mancanza di piloti. I Predator e i Reaper costituiscono solo la componente pesante. Il Dipartimento della Difesa statunitense – stima di aprile – potrebbe contare su almeno 5 mila Uav di dimensioni più piccole, usati per missioni di ricognizione tattica.

CORRIERE DELLA SERA DI VENERDì 28 NOVEMBRE 2008
La guerra telecomandata
Scrivo in merito all’articolo apparso sul Corriere dal titolo: «Guerra telecomandata. Da Las Vegas». A questo articolo era associato un box dal titolo «E l’Italia ordina quattro Reaper armati: 330 milioni di dollari». Al riguardo mi corre l’obbligo evidenziare che sono state riportate alcune inesattezze. Nel merito, la cifra dichiarata di 330 milioni di dollari è relativa ad un’offerta diversa da ciò che è stato effettivamente acquisito dal nostro Paese. Infatti, il programma acquisito dall’Aeronautica Militare è pari ad un totale di 90 milioni di euro ripartiti in un triennio. Il programma denominato Predator B che l’Aeronautica Militare è in procinto di introdurre in linea non prevede l’acquisizione di armamento ma della capacità di «ricognizione ogni tempo» attraverso una serie di sensori adatti a tale scopo.
Per completezza d’informazione, si evidenzia che l’impiego del Predator B è da intendersi anche per attività di sorveglianza connesse a molteplici esigenze, quali anche quelle di ricerca e soccorso, sorveglianza delle frontiere, controllo ambientale, ecc..
Col. Amedeo Magnani
Capo Ufficio Stampa Aeronautica Militare