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 2008  novembre 27 Giovedì calendario

INTERVISTA A MASSIMO VITTA ZELMAN DI PIERLUIGI PANZA


la griffe dell’Arte
«Il segreto del successo? Stare fuori dagli schieramenti»
1928-2008
La casa editrice festeggia 80 anni.
Il direttore Vitta Zelman ripercorre la sua storia e si difende dalle critiche di monopolismo

«Non ho mai conosciuto Albert Skira anche se sarebbe potuto capitare. Lui morì nel 1973 ed era già da qualche anno che io frequentavo la fiera del libro di Francoforte dove lui veniva, ma, da gran signore dell’editoria d’arte, non faceva condizioni e non stringeva nuovi rapporti », racconta Massimo Vitta Zelman, attuale presidente e azionista del gruppo Skira.
Albert Skira era un ragazzone di 24 anni quando, nel 1928, francesizzando il suo nome e trasformandolo dall’italiano Alberto Schira in Albert Skira fondò a Losanna una casa editrice per «Livres d’Art». Riuscì a pubblicare il primo libro tre anni dopo, ma fu un volume straordinario: «Le metamorfosi » di Ovidio illustrate dal più grande pittore del tempo: Pablo Picasso. «Skira gli fece la corte tre anni – ricorda Vitta Zelman – finché Picasso, stremato, cedette.
Credo che lo prese proprio per sfinimento. Poi fu più facile con gli altri artisti: Matisse, ad esempio, gli disse subito sì.
Anche il marchio della casa editrice, con le lettere molto stilizzate, si deve a Matisse. I primi vent’anni, dal ’28 al ’48, furono per la casa editrice anni eccezionali e di contatti diretti con i grandi artisti».
Poi venne il dopoguerra. «Skira era ormai una casa editrice raffinata e non più così di nicchia. Anzi negli anni del dopoguerra Skira era diventato sinonimo e stereotipo di libro d’arte: era per l’arte quello che la Pleiade è per i classici della letteratura». Nel 1973 la morte del fondatore. «Le redini della casa editrice passarono alla moglie, Rosa Bianca, che era figlia dello storico dell’arte Lionello Venturi, e a uno dei figli di Albert, Jean Michel, che aveva una trentina d’anni. Ristamparono molti libri e aggiunsero novità. Ma erano anni di trasformazione vorticosa per l’editoria d’arte e anche il modello Skira invecchiava. Fu così che, successivamente, la casa editrice francese Flammarion acquistò il marchio, poi ceduto a una casa editrice svizzera, la Edipress e da questa di nuovo alla famiglia».
Poi l’ingresso degli italiani. «Nel ’94 io e Giorgio Fantoni acquistammo il marchio. Allora Skira stampava cinque novità all’anno: era diventata una piccolissima casa editrice rintanata a Ginevra. Nel 1996 acquistammo tutta l’attività e già da quell’anno uscirono una quarantina di titoli».
La Skira di oggi è un colosso dell’editoria d’arte e di qualità. «Oggi stampiamo 300 novità all’anno e produciamo mostre, attività non compresa nella Skira di Albert. Anzi, fino agli anni ’70 gli editori non facevano cataloghi di mostre: fu proprio Fantoni, nel 1973 con la mostra su Tiepolo a stampare per la prima volta con una casa editrice un catalogo d’arte. Da allora il mercato del settore si è trasformato. Oggi, comunque, Skira continua a far la parte maggiore del fatturato con l’editoria, mentre la produzione di mostre e il marketing legato ad esse raggiunge il 15%».
Skira conobbe di persona molti dei protagonisti di allora, come Picasso e Matisse: è ancora così oggi per un editore? «L’amicizia è ancora importante. Ad esempio io ho molti amici architetti, come Vittorio Gregotti, Gae Aulenti, Massimiliano Fuksas e ricordo gli scomparsi Ettore Sottsass e Aldo Rossi. Credo che l’architettura sia oggi la più internazionale delle arti e per questo ben si coniuga con il Dna della nostra casa editrice, che sta lanciando le sue edizioni francese e americana. Ma ho avuto anche grandi amici tra gli artisti, come Tadini, Baj, Adami, Rotella e, naturalmente, Arnaldo Pomodoro ».
E tra gli stranieri chi ricorda? «Sono stato molto amico di Balthus e ne ho realizzato la mostra a Roma, suo ultimo desiderio. Era un personaggio fuori dal comune: aveva costruito una sorta di vita parallela. Abitava con la moglie Setsuko nel Grand Chalet di Rossinière circondato da domestici giapponesi. E se gli si chiedeva cosa sognasse, rispondeva: un castello e una spada, fare il cavaliere».
Ma qual è il segreto per tenere insieme tanti artisti che, sovente, si detestano? «La nostra è una nicchia editoriale che non si può permettere una tendenza, ma deve contare solo sulla qualità: noi sosteniamo tutte le proposte purché siano di qualità. Certo devo usare un certo equilibrismo, specie tra i critici, che si avversano l’uno con l’altro. La nostra saggistica ha cercato di offrire spazi a tutte le impostazioni critiche differenti. Ma abbiamo evitato di fare una rivista proprio perché una rivista esprime una tendenza».
C’è chi accusa la Skira di oggi di essere tentacolare e di occupare quasi tutti gli spazi del mercato. «Fare il libraio è la nostra terza gamba, dopo l’editoria e gli eventi. Consente di mettersi in contatto con il nostro pubblico, evitando di essere stritolati nelle librerie tradizionali dove si rincorre lo spaccio di bestseller venduti in poco tempo». Soprattutto a Milano si accusa Skira di essere onnipresente. «Su Milano abbiamo avuto una strategia aggressiva in vista dell’Expo. un mio vecchio pallino: credo che Milano abbia smesso di essere il crocevia intellettuale da diversi decenni mentre dovrebbe rimanere tale e giocare quest’aspetto in mutuo scambio con la sua caratteristica di capitale economica. Anzi, lunedì apriremo anche il bookstore della Scala e sarà di grande qualità. A chi ci accusa voglio però ricordare che, a Milano, abbiamo vinto dei concorsi banditi da fondazioni private e autonome e dal comune: la Triennale, la Scala e Brera, che appartiene al ministero».