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 2008  novembre 27 Giovedì calendario

GUIDO RAMPOLDI

Anche se non leggono gli editoriali del New York Times il mullah Omar e i suoi soci di al-Qaeda devono aver intuito che l´insistenza di molti europei sulla necessità di negoziare un armistizio con i Taliban rivela un´ansia di disimpegnarsi da un conflitto considerato ormai troppo rischioso, se non già perso («Temiamo che alcuni membri della Nato - ha scritto la settimana scorsa il giornale americano ? siano così smaniosi di ritirare le truppe che vorrebbero svendere il futuro dell´Afghanistan»). Ma per buona fortuna delle ragazze afgane, le cui speranze minime sarebbero sacrificate sul tavolo negoziale, ai Taliban quel commercio non sembra interessare. Ai loro occhi gli occidentali somigliano a «quei malati che nel delirio fanno cose strane e buffe: una volta proclamano la nostra sconfitta e un´altra parlano di negoziati e di riconciliazione, una volta accusano i nostri vicini (il Pakistan) di interferire negli affari interni dell´Afghanistan e un´altra tengono riunioni congiunte con quelli» (così al Emarah, l´Emirato, sito ufficiale di Mullah Omar). Va da sé che con un nemico così frastornato e incoerente non si tratta; piuttosto, lo si combatte fino alla sua ineluttabile capitolazione. Tanto più se quello ammette, nello stile esplicito inaugurato dal comando britannico, che «la vittoria militare è impossibile». E´ impossibile anche ai Taliban. Ma nei conflitti asimmetrici il concetto di ?vittoria´ è relativo.
Nello scontro con un esercito regolare, una guerriglia vince se riesce ad evitare la sconfitta fin quando il costo umano ed economico non induca il nemico a cedere. E questo risultato non è più precluso ai Taliban, come confermano sia lo scoramento che ormai pervade il campo occidentale, sia i segnali che arrivano dal terreno. In questo autunno per la prima volta la guerriglia è riuscita a minacciare la strada del Kyber pass, la principale e di fatto quasi unica via di approvvigionamento logistico dei contingenti Nato. E nell´anno che sta per concludersi le perdite subite dalle truppe occidentali sono state le più alte dal loro arrivo in Afghanistan. A queste avversità europei e americani rispondono in vario modo.
Alcuni confidano nel negoziato con «i Taliban moderati» apparsi in sogno anche al nostro ministro della Difesa, altri nell´arrivo di altri 20mila soldati promesso da Obama; non molti, infine, cercano di dare un contenuto coerente al Comprehensive approach, Approccio globale, il nuovo metodo. Prevede che gli occidentali non confidino più unicamente nello strumento militare, ma organizzino un complesso di interventi diplomatici, politici e umanitari. Nelle parole del nuovo capo delle Forze armate statunitensi, il generale David Petraeus, «l´antiterrorismo è la parte minore, il resto sono consigli tribali, programmi di sviluppo, sforzi di riconciliazione con quella parte dei Taliban che non sono il nucleo duro, e lavoro diplomatico con i Paesi vicini». La teoria è saggia e sia pure con molto ritardo, accoglie molte tra le proposte avanzate da alcuni europei, inclusi gli italiani. Ma quando si passa alla progettazione pratica, ciascuna di quelle formule si complica. ?Lavoro diplomatico´, per esempio. Grossomodo vuol dire: coinvolgere e rassicurare sia le potenze che hanno vissuto lo sbarco della Nato in Asia centrale come una minacciosa invasione di campo (Iran, Russia, Cina), sia quelle che considerano l´Afghanistan un territorio vitale al proprio interesse strategico (innanzitutto Pakistan e India). Le speranze suscitate nel mondo dalla nuova presidenza americana lasciano qualche spazio ad un prudentissimo ottimismo. E i Taliban a Kabul non li vuole nessuno. Ma a tanti, a troppi, non dispiace affatto che la Nato continui a sanguinare in Afghanistan, di modo che si penta amaramente di essersi estroflessa al di fuori dei confini europei e abbandoni per sempre la velleità di rappresentare un´alleanza a dimensione globale.
Avviare verso una qualche stabilità una regione da secoli tra le più caotiche, ora per giunta attraversata dalle rotte del petrolio, può apparire perfino più agevole che isolare e dividere la guerriglia. Il generale Petraeus ripete di confidare nella «riconciliazione», formula pudica che alle orecchie della casta guerriera afgana suona come la promessa di una generosa campagna-acquisti: si tratterebbe di acquisire settori periferici della guerriglia. Il metodo è già stato sperimentato con successo apparente dai non pochi contingenti Nato che da tempo, e con la massima discrezione, pagano in dollari o in aiuti la neutralità di tribù e di comandanti un tempo nemici. Ma le controindicazioni sono enormi. I codici militari afgani considerano del tutto normale il tradimento della parola data: insomma la «riconciliazione» è revocabile e il «riconciliato» può spararti nella schiena, se si convince che gli conviene tornare dai Taliban. Inoltre il messaggio inviato alla popolazione è pessimo, giacchè i «riconciliati» ottengono dalla Nato non solo il perdono per i crimini passati, ma di fatto anche l´autorizzazione a continuare a vessare gli inermi. Infine muoversi nel sensibilissimo reticolo delle relazioni tribali è assai pericoloso, come ricorda il generale Mc Kiernan, comandante Usa in Afghanistan: «Per ogni tribù o clan che avvantaggi, c´è una tribù o un clan che stai svantaggiando. E loro lo sanno, mentre tu forse lo ignori».
Ma soprattutto, resta indeterminato come il Comprehensive approach intenda risolvere le questioni cruciali che da anni dividono gli occidentali. Questi danno vita a due missioni parallele ? l´americana Enduring freedom e l´Isaf a guida Nato ? difformi per finalità e per metodi. Anche a causa di tale sdoppiamento il tasso di litigiosità è alto. I comandi americano e britannico sono da tempo ai ferri corti. Secondo gli americani la Nato non ha denti, secondo gli europei gli americani non hanno cervello. Gli americani, perfino quando operano sotto comando Nato, si attengono a regole d´ingaggio proprie: per esempio, possono richiedere l´intervento dell´aviazione anche se può provocare vittime tra la popolazione afgana. A sua volta la missione a guida Nato è una babele di 41 contingenti, parecchi dei quali si sottraggono all´impiego in zone pericolose in virtù di 70 caveat, o deroghe ad hoc. Così gli uni consegnano villaggi e tribù ai Taliban con bombardamenti scriteriati, gli altri con la loro volontà di evitare rischi. Gli americani sono divisi perfino al loro interno, con risultati paradossali. Cinque mesi fa un fiduciario della Casa Bianca girava l´Europa lamentando che la Nato rifiutasse di sradicare i campi di papavero da oppio; negli stessi giorni corrispondenze apparse sulla stampa americana raccontavano della cura che mettono i soldati statunitensi nell´evitare di danneggiare le coltivazioni di papavero per non suscitare rivolte contadine.
Sradicare, ignorare? Se ne discute da anni senza gran costrutto. Incapaci di sanare le proprie divisioni interne, gli occidentali riusciranno a dividere il nucleo duro dei Taliban? Per quanto i sauditi si stiano applicando, è molto dubbio che riescano. Al momento pare altrettanto improbabile, ma in futuro non impossibile, che siano i Taliban ad attrarre parte dello schieramento nemico, e cioè quel segmento dell´Alleanza del nord già ora disponibile a sganciarsi dagli occidentali per negoziare con il mullah Omar una sorta di patto afgano. Propone quella trattativa il tagico Rabbani, che all´inizio degli anni Novanta, quando era presidente della Repubblica, accolse in Afghanistan gli arabi oggi con al Qaeda. Ex mujahid al tempo della guerra santa contro l´Armata rossa, Rabbani ricorda bene come finì, nel 1991, il regime filo-sovietico: si squagliò quando una parte del suo esercito, fiutato il vento, si accordò in segreto con la guerriglia. La storia non si ripeterà, ma quanto più gli occidentali tradiranno il loro scoramento, tanto più gli alleati afgani della Nato si chiederanno se convenga restare dalla parte di chi ormai cerca soltanto una formula dignitosa per disimpegnarsi. Non meno autolesionista sarebbe per gli occidentali illudersi che basti aumentare le truppe per prevalere sul caos afgano.
Servono soluzioni innovative, molto innovative. Senza le quali, prendiamone finalmente atto, l´Occidente è destinato ad una clamorosa disfatta.