Ugo Tramballi, Il Sole-24 Ore 25/11/2008, pagina 31, 25 novembre 2008
Il Sole-24 Ore, martedì 25 novembre Per dire quanto è speciale il miracoloso caso economico di Israele si potrebbero ripetere le solite cose
Il Sole-24 Ore, martedì 25 novembre Per dire quanto è speciale il miracoloso caso economico di Israele si potrebbero ripetere le solite cose. Che di un deserto si è fatto un giardino; che per numero di imprese quotate al Nasdaq questo è il terzo Paese dopo Usa e Canada; che dai proverbiali tassi d’inflazione degli anni ’80 (445%) si è arrivati a una disciplina fiscale commovente, nonostante la sete perenne di finanziamenti dell’apparato della Difesa. Ma se questo è un Paese cronicamente in guerra (2 con i palestinesi, 2 in Libano e 4 col mondo arabo tutto insieme, in 60 anni) solo una corrispondenza dal fronte può fare capire dove è la straordinarietà di questa economia. Estate 2006, zona di Carmiel, su in Galilea. Cadono i razzi Hezbollah dal Libano verso il quale corrono colonne militari senza fine di israeliani. Ma alle 9 del mattino il 95% del personale di Delta si presenta in fabbrica a filare mutande da donna, uomo, bambino per le marche più famose del mondo. «Il problema sono le sirene: suonano e la gente deve mettersi al riparo. Finirà che dovremo ridurre la produzione della metà», sospira Dov Lautmann, imprenditore storico dell’industria israeliana. Venti giorni dopo, cessato il fuoco, la produzione sarebbe risalita del 110%. «Il nostro errore fatale è di non pensare come loro, collettivamente. Siamo troppo individualisti», diceva degli israeliani Munib al-Masri, il più grande imprenditore palestinese, uno dei pochi della sua parte a credere che l’indipendenza del suo popolo passi anche dalla capacità di produrre lavoro e benessere. questa la forza dell’economia israeliana: essersi smarcata dalla guerra anche quando cadono le bombe. Modificando la sua struttura - oggi il 50% di ciò che produce esporta e il 60% di ciò che esporta è tecnologia - Israele lavora in ogni condizione: pace fredda con l’Egitto, conflitto "a bassa intensità" come le Intifade palestinesi, guerre guerreggiate come con Hezbollah, minaccia di armageddon nucleare con l’Iran. Come dice Eli Hurvitz, l’uomo che è la storia dell’imprenditorialità privata israeliana, «la guerra non rovina l’economia, solo la stupidità può farlo». E nemmeno la cronica instabilità interna riesce a farlo. In 60 anni celebrati lo scorso maggio, il frammentato sistema politico israeliano retto da un proporzionale in purezza, non è mai riuscito a garantire una maggioranza parlamentare né un Governo che durassero più di tre anni. Ma questo non ha mai compromesso l’economia perché se sul processo di pace destra e sinistra sono lontanissime, sulle riforme necessarie per lo sviluppo c’è una grande identità di vedute: cambiare ma con cautela. Dal punto di vista geopolitico Israele era un binario morto: avrebbe potuto essere il motore economico di una regione. Invece da tutti gli arabi che lo circondano, anche da coloro che sono già in pace, continua a essere percepito come un nemico. La rivoluzione è stato il fenomenale successo dell’hi-tech iniziato una quindicina d’anni fa: il binario morto si è trasformato in un Paese esportatore. Poco importa che la pace non abbia portato agli scambi sognati con l’Egitto; né che la mancanza di accordi con la gran parte del mondo arabo abbia tolto a Israele l’accesso al Golfo. I mercati d’Israele sono America, Europa ed Estremo Oriente. Anche l’industria tradizionale più forte - tessile, metallurgico, alimentare, farmaceutica - si é adattata da anni alle esigenze di quei mercati. In Israele, dicono ora, «un mutuo è un mutuo che una banca concede e non trasforma magicamente in qualcosa d’altro». Per questo il primo impatto della crisi internazionale non è stato devastante. Gli israeliani risparmiano il 22% del loro reddito. E le considerazioni sociali che in questi anni hanno rallentato le riforme, alla fine hanno permesso alla Banca Leumi, una delle più grandi, di essere ancora nazionalizzata e dunque protetta, come ai tempi del più rigido laburismo. In Israele non ci sono nemmeno bolle immobiliari. Quattro anni di crescita ininterrotta al 5,2% e quella del 2008 garantita su un fortunato 4,5, sono una scorta confortevole per affrontare la crisi. Ma, dice Avishai Braverman, economista e presidente della Commissione Finanze della Knesset, il Parlamento, anche in Israele «il 2009 sarà un anno duro». Il ministero delle Finanze insiste su una crescita del 3,5%: ma non ci credono nemmeno al ministero. La Banca d’Israele propone un più realistico ma ancor buono 2,7; la previsione di Ubs è solo dell’1%. Giusto per ricordare che l’economia israeliana è ormai globalizzata in tutto: anche nella crisi. Ugo Tramballi ugo.tramballi@ilsole24ore.com