Corrado Malandrino, La Stampa 26/11/2008, 26 novembre 2008
Sono stati diffusi dati assurdi o citati impropriamente a sostegno di accuse unilaterali alle università pubbliche
Sono stati diffusi dati assurdi o citati impropriamente a sostegno di accuse unilaterali alle università pubbliche. Primo esempio: vi sarebbero in Italia 327 facoltà con meno di 15 iscritti. Invece, secondo le banche dati ministeriali, la Crui e il rapporto Censis 2008, vi sono 540 facoltà negli atenei statali e non statali. Tutte con centinaia o migliaia di iscritti. Si confondono sedi decentrate e facoltà? Secondo esempio: ci sarebbero troppe università, chi dice 95 chi 100. In realtà ci sono 62 atenei statali, 16 non statali, 12 università telematiche, 6 scuole d’istruzione superiore (come la Normale di Pisa). Ma in Francia, Gran Bretagna, Germania le università sono di più. Da noi non è cresciuto tanto il numero delle pubbliche, bensì quello delle private e telematiche (in gran parte istituite dal ministro Moratti). Terzo esempio: ci sarebbero troppi docenti. Se si guarda il rapporto professori-studenti, si scopre che negli atenei statali è di 1 docente ogni 26/30 studenti, in quelli privati è di 1 a 10. All’Università di Torino, primo dei mega-atenei statali, vi sono 60.200 iscritti e 2.170 professori (1 a 30); nell’Università del Piemonte Orientale, secondo tra i piccoli atenei, 9.400 studenti e 360 docenti (circa 1 a 26). Alla Bocconi, 1.260 docenti per 12.700 studenti, a Castellanza 300 per 2.000, alla Luiss di Roma 860 per 6.100 (1 a 10 o meno). Troppi professori negli atenei privati? No, il rapporto più funzionale per una didattica efficace è di 1 ogni 10/12 studenti. Quanto si deve al rapporto troppo alto docenti-studenti negli atenei pubblici il fenomeno dell’abbandono e dei fuori corso? Il discorso sui dati si può fare, ma a patto di non barare. I corsi di laurea sono raddoppiati perché lo suggeriva la riforma Berlinguer. Sono troppi, è giusto diminuirli, ma senza colpevolizzare chi ha subìto le «riforme» dei passati governi. L’ultimo decreto-legge Gelmini segna l’ennesima svolta. Alcuni punti sono condivisibili: l’inizio d’una riforma dei meccanismi concorsuali, l’eliminazione della corruzione, il premio al merito scientifico invece che all’anzianità, una carta etica per gli operatori dell’università, gli incentivi per i giovani. Ma vi sono altri punti non condivisibili: primo, i grossi tagli previsti in finanziaria per il fondo di finanziamento ordinario degli atenei. Se si vuole privatizzare, lo si faccia in modo coerente buttando via il meccanismo pubblico di finanziamento, compresa la soglia di autofinanziamento valida per le università statali e non per le private. Se invece si vuol mantenere l’istituzione universitaria pubblica, in accordo con la Costituzione, occorre introdurre meccanismi di reale competizione e controllo dell’efficacia. possibile farlo subito, con gli strumenti disponibili. Ma alzando il finanziamento pubblico a una quota compatibile con il dato medio europeo e mondiale, circa il doppio di quello italiano attuale. L’intervento di Luca Ricolfi sull’università (La Stampa, 15 novembre) si concludeva con pessimismo sia rispetto alle soluzioni avanzate dal governo, sia sulle proposte degli oppositori. Non sarei così pessimista. Ricolfi chiede al governo più tempo per la razionalizzazione e agli atenei sacrifici dei rami secchi e in termini di stipendi e carriere. Certo i rami secchi sono da eliminare. Non è chiaro il secondo tipo di sacrificio, visto che negli ultimi 15 anni scuola e università hanno subìto un calo punitivo di stipendi e progressioni di carriera per il personale docente e tecnico-amministrativo, specie se comparato con regioni, enti locali, sanità. Tuttavia, credo ci siano modi più rapidi per introdurre meccanismi moralizzatori di grande effetto e risparmio. Si tolga il valore legale al titolo di studio, come sosteneva Luigi Einaudi, e si vedranno sparire come neve al sole molti atenei fantasma. Il titolo corrisponderà al valore dell’università. Così i soldi seguiranno il merito. Si metta poi una norma che impedisca a un docente universitario di ricevere due stipendi o più (sommando quello dell’università ai proventi di pingui consulenze), e si vedrà il numero di docenti e di baroni diminuire di colpo.