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 2008  novembre 26 Mercoledì calendario

Che il primo sostenitore di Hillary Rodham Clinton per l’incarico al ministero degli Esteri sia stato Henry Kissinger la dice lunga

Che il primo sostenitore di Hillary Rodham Clinton per l’incarico al ministero degli Esteri sia stato Henry Kissinger la dice lunga. L’ultima volta che è stato nominato a una posizione di responsabilità – la presidenza della commissione di indagine sull’11 settembre – il nostro si è profuso in sviolinate sul grande onore e onere concessigli, per poi ritirarsi alla chetichella quando ha saputo che avrebbe dovuto rendere pubblico l’elenco dei clienti della Kissinger Associates. Il Senato si rivelerà forse un club, alla stregua delle scialbe confraternite studentesche dei nostri ex segretari di Stato, ma anche così, è difficile che la senatrice Clinton ottenga la conferma se i nostri rappresentanti eletti saranno disposti a farle qualche domanda sui suoi conflitti d’interesse. E come potrebbero sottrarsi a questo compito? Eppure, l’ultima volta che le frequentazioni di politica estera dei Clinton sono state vagliate dal Congresso, le indagini sono finite in un polverone che non si è ancora diradato. Di recente, e alquanto in malafede, l’ex presidente Bill Clinton si è offerto di sottoporre la sua fondazione allo scrutinio del Congresso, ma il problema reale è altrove. (A questo proposito, leggete quanto ha da dire il collega Todd Purdum di Vanity Fair sui fantastici amici e soci in affari che Clinton ha raccolto attorno a sé dalla fine della presidenza). Tanto il presidente che la senatrice Clinton, mentre erano in carica, hanno lasciato chiaramente intendere alle potenze straniere che sia loro sia i loro parenti erano pronti ad accogliere proposte e suggerimenti da lobby e faccendieri. Solo per citare gli scandali Clinton più clamorosi degli ultimi anni Novanta, ricordiamo quando la commissione parlamentare di riforma e vigilanza del governo pubblicò una lista di testimoni già convocati che si erano resi «indisponibili» – in altre parole, avevano lasciato il Paese per evitare di testimoniare oppure si erano avvalsi del quinto emendamento per evitare di autoincriminarsi. Alcuni membri democratici della commissione affermarono che il procedimento era ingiusto nei confronti, per esempio, delle monache buddiste che avevano raccolto fondi illegali – secondo la normativa californiana – a favore dell’allora vice presidente Al Gore, ma per quanto si invochi la giustizia, resta il fatto che il numero di coloro che non se la sentirono di testimoniare si aggira tra le 94 e le 120 persone. Se nomi come John Huang, James Riady, Johnny Chung, Charlie Trie e altri ancora vi dicono qualcosa, ricorderete inoltre i pretesti di amnesia e la cocciuta riluttanza a testimoniare, seguiti dall’improvvisa prontezza da parte della Commissione nazionale democratica a restituire somme ingenti di denaro percepite da fonti estere. Gran parte di questi fondi erano stati raccolti nel corso di incontri politici tenuti nelle sale pubbliche della Casa Bianca, il genere di eventi in cui ufficiava l’affabile Roger Tamraz, per fare un altro esempio. E non dimentichiamo il rapporto di una commissione parlamentare sullo spionaggio cinese negli Stati Uniti e sul trasferimento illecito in Cina di tecnologia militare avanzata. Guidata da Christopher Cox, repubblicano della California, la commissione emise un documento nel 1999, senza alcuna voce contraria, in cui si ammetteva che, sul problema delle infiltrazioni cinesi, il governo Clinton si era dimostrato terribilmente distratto (e altrettanto distratto, direi, era stato il modo in cui aveva accettato donazioni da imprenditori con legami nel settore dell’industria militare cinese). Molti sono stati gli interrogativi sollevati da queste indagini (tuttora incomplete), ma le risposte non appaiono sufficientemente inequivocabili. Questo non si può dire invece del caso di Marc Rich e di altri indulti – quella volgare bonanza di perdoni presidenziali che caratterizzò la fine dell’era Clinton. L’ex moglie di Rich, Denise, donò ingenti somme alla campagna per la rielezione di Hillary Clinton e alla biblioteca di Bill Clinton, e Marc Rich fu scagionato. Edgar e Vonna Jo Gregory, condannati per frode bancaria, ingaggiarono Tony, il fratello di Hillary Clinton, gli versarono 250.000 dollari e anch’essi ottennero la grazia. Carlos Vignali Jr e Almon Glenn Braswell pagarono 400.000 dollari all’altro fratello di Hillary Clinton, Hugh, e anch’essi – miracolo! – ottennero l’indulto e la commutazione della pena. Nel caso di Hugh, i soldi furono restituiti per l’ondata di sdegno provocata (seguendo la prassi consolidata della Commissione democratica, tipica dell’era clintoniana, quando si è colti con le mani nel sacco o scoppia lo scandalo). Ma molto più imbarazzante, a mio avviso, è scoprire che una ex first lady, e per di più candidata a segretario di Stato, è stata coinvolta di persona, e per anni interi, in dubbi traffici di fondi esteri e ha due fratelli corrotti ai quali non sa dire di no. Queste squallide manovre familiari potrebbero avere ripercussioni in politica estera? Sì. Fino alla fine del 1999, i favolosi fratelli Rodham lavoravano a un’altra impresa, ottenere la concessione dell’esportazione delle nocciole dalla Repubblica della Georgia, che da poco aveva proclamato l’indipendenza. C’era qualcosa di spaventosamente donchisciottesco in questo progetto – qualcosa al contempo troppo grande e troppo meschino – che prevedeva inoltre la partecipazione del principale avversario politico dell’allora presidente della Georgia (animato forse anche lui da legittime aspirazioni politiche) e pertanto, ancora una volta, gli Stati Uniti hanno dato l’impressione di avere una first family da repubblica delle banane. Cina, Indonesia, Georgia – non sono affatto Paesi trascurabili sulla nostra cartina strategica, finanziaria e ideologica. In ciascun Paese, sono in ballo interessi speciali per i quali il nome Clinton equivale a «affare fatto». E ho dimenticato forse di aggiungere che cosa ha invocato il presidente Clinton quando lo sconcerto davanti al caso Rich si è fatto insostenibile? Ha giurato di aver concordato l’affare con il governo israeliano negli intervalli dei colloqui di Camp David! Ne consegue che chiunque si fosse azzardato a criticare gli indulti avrebbe scatenato le ire della Anti- Defamation League (potente gruppo di pressione che combatte la diffamazione degli ebrei): ennesimo splendido stratagemma per dimostrare che tutto è fatto in modo chiaro e trasparente e per convincere il mondo musulmano della nostra imparzialità. In politica estera, è stato provato a più riprese che i Clinton non curano altri interessi che i propri. Un presidente deve avere l’assoluta certezza che il suo ministro degli Esteri non ha altra agenda che quella stabilita dal governo. E chi può affermare onestamente che sia questo il caso di una donna nota per la sconfinata ambizione personale; la cui fedeltà va a un ex presidente incriminato, radiato dall’albo degli avvocati e screditato; e che è sempre pronta, in qualsiasi momento, e durante l’orario di lavoro, a ricevere telefonate d’affari da uno dei suoi fratelli faccendieri? E questa è la donna senza scrupoli che fino a poche settimane fa non ha esitato a soffiare sul fuoco dell’odio razziale contro il presidente eletto Obama e schernirlo (proprio lei che non ha nessuna competenza in politica estera) accusandolo di scarsa esperienza in quei settori a lei invece ben noti esclusivamente per i suoi sordidi intrallazzi. Il gesto di Obama, che alcuni vedono come magnanimo e conciliante, ai miei occhi appare pura avventatezza e masochismo. CHRISTOPHER HITCHENS PER IL CORRIERE DELLA SERA DI MERCOLEDì 26 NOVEMBRE 2008