Marco Del Corona, Corriere della Sera 26/11/2008, 26 novembre 2008
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PECHINO – A loro modo, sono stati di parola. I manifestanti antigovernativi che in Thailandia dalla scorsa estate stanno assediando – metaforicamente e fisicamente – la politica, l’avevano promesso: è l’ora dell’assalto finale. Lunedì hanno circondato il Parlamento, obbligandolo a rinviare la seduta. Ieri mattina le loro maglie gialle (il colore associato alla monarchia), i cartelli, le bandiere blubiancorosse, si sono messi in marcia. A fine giornata avevano bloccato il vecchio aeroporto ma soprattutto lo scalo internazionale Suvarnabhumi, fulcro dell’industria turistica di un regno già morso dalla crisi.
Tutti i voli annullati. Si è anche cominciato a sparare per le strade, la tv ha mostrato uomini mirare ai sostenitori del governo. Feriti: da due ad almeno una dozzina.
L’Alleanza popolare per la democrazia (Pad) sfida il governo da mesi. L’area intorno alla presidenza del primo ministro Somchai Wongsawat è una sorta di presidio permanente. L’opposizione vuole costringerlo alle dimissioni. Lo accusa di non essere che una propaggine politica e affaristica dell’odiato Thaksin Shinawatra, tycoon sceso in politica forte di un populismo spinto, capace di facile presa nelle aree rurali. L’esecutivo di Thaksin, in carica dal 2001, è stato rovesciato da un golpe militare soft nel 2006 ma le elezioni del dicembre 2007 hanno riconsegnato la maggioranza al partito erede di quello di Thaksin, nel frattempo esule in Gran Bretagna. In settembre il premier Samak Sundaravej è stato costretto alle dimissioni però il Pad non s’è placato, «la Thailandia è sempre in mano alla banda di Thaksin », e almeno da un punto di vista delle parentele non ha torto: il capo del governo, Somchai, è cognato di Thaksin, il quale – è cronaca degli ultimi giorni – è stato espulso dalla Gran Bretagna, ha divorziato a Hong Kong, avrebbe addirittura pensato di farsi una residenza principesca a Pechino, infine è stato condannato a due anni in contumacia per corruzione.
Ancora ieri i manifestanti reclamavano la sua estradizione. Ma il Pad attacca anche l’«anima antimonarchica» degli uomini di Thaksin, stigma micidiale in un Paese dove la semplice mancanza di rispetto per un’immagine di re Bhumibol può costare anni di galera. Ci sono i ritratti del sovrano agitati nelle proteste ed è stata la stessa moglie di Bhumibol a dare una sorta di benedizione alla protesta, quando il 14 ottobre ha assistito al funerale di un manifestante ucciso. Da settimane la politica ha lasciato il posto alla permanente prova di forza, i militari sono nervosi (e la Thailandia ha un passato di sbrigativi colpi di Stato e repressioni feroci).
Le provocazioni fra le due piazze – filogovernativi e antigovernativi – si sono già bagnate di sangue, prima degli spari di ieri sono esplose bombe, mentre il divario fra le città dei ceti medi, schierati con il Pad, e le campagne si inasprisce. Il premier Somchai assicura: non mi dimetto. Ma i ministri si sentono braccati, dopo che la folla ha puntato sul terminal in disuso del vecchio aeroporto, il luogo dove si tengono i consigli di gabinetto. Da lontano, in un’intervista diffusa dal sito di Arabian Business,
Thaksin ci mette del suo: dice che la Thailandia ha bisogno di lui, si immagina un ritorno da salvatore della patria. Anche i facinorosi del Pad vorrebbero tanto che Thaksin fosse lì, davanti a loro, ma non sarebbe la stessa cosa.