Maurizio Blondet, www.finanzaonline.com 29 marzo 2006, 29 marzo 2006
Islanda: chi l’ha rovinata Maurizio Blondet 29/03/2006 http://www.effedieffe.com/tasti/img/islanda
Islanda: chi l’ha rovinata Maurizio Blondet 29/03/2006 http://www.effedieffe.com/tasti/img/islanda.jpg I prezzi delle case a Reykjavik (la capitale, 115 mila abitanti) sono raddoppiati Prima di cominciare la storia, bisogna tenere in mente una cifra: 296.737. Tanti sono gli abitanti dell’Islanda. Solo 30 mila in più di quanti vivono a Venezia. Stiamo parlando di una nazione con la popolazione di una media città italiana, della cui economia non varrebbe nemmeno la pena di occuparsi. Invece questo piccolo Paese ed il suo tracollo stanno provocando terremoti in Paesi lontani come la Nuova Zelanda e l’Ungheria, e fanno tremare il mercato speculativo mondiale. Eppure quei mercati mondiali, fino a febbraio scorso, puntavano sull’Islanda. Anzi la portavano ad esempio al resto d’Europa che stagnava. In Islanda, l’economia cresceva del 6 % l’anno. Le percentuali hanno una loro fascinazione ipnotica, sugli analisti finanziari: nessuno di loro ha probabilmente dedicato un attimo a valutare che quel 6% era la crescita di una cifra che, in assoluto, valeva 300 mila abitanti scarsi. E tutti gli strateghi della finanza globale hanno cominciato ad «investire» in quel PIL da piccola città. Tanto più che l’Islanda non essendo nell’euro e avendo quindi una moneta (la krona) fluttuante nei mercati dei cambi mondiali, offriva - per ottenere valuta in prestito - tassi d’interesse più che ragguardevoli. Specialmente in confronto a quello che rendeva il denaro in Giappone (zero %), in Europa (2 %) o anche in USA (solo da poco 4,5%). E così, i genii della speculazione hanno convogliato denaro là. Come, l’abbiamo già spiegato qualche tempo fa: con il «carry trade». Questo consiste nel semplice trucco di prendere denaro in prestito dove costa poco (in Giappone) per comprare con questo buoni del Tesoro del Paese dove il denaro costa tanto, il 6 o 7%. Era il caso dell’Islanda. Denaro rovente proveniente da Giappone, Europa e USA si è riversato sull’isola a contendersi i titoli del debito pubblico, le azioni, le obbligazioni islandesi ad alto rendimento. Insomma: denaro dal Giappone, 100 milioni di abitanti, dall’Europa (460 milioni), dagli USA (270) in un Paese di 300 mila, e in un mercato mobiliare e immobiliare da piccola città. E quanto più denaro arrivava, tanto più i frutti crescevano. L’arrivo di capitali caldi in immensi volumi surriscaldava l’economia dell’isola-città; la Banca Centrale islandese, per cercare di frenare quel boom malsano, aumentava i tassi; insomma faceva costare il denaro di più. Perché l’economia di scuola insegna ai banchieri centrali: fate costare di più il denaro che si prende in prestito, e gli imprenditori e le famiglie ne prenderanno meno, rallentando gli affari, raffreddando l’economia. Ma la scuola a cui vanno i banchieri centrali non è aggiornata sulle meraviglie della globalizzazione. La Banca Centrale islandese in meno di due anni ha raddoppiato gli interessi che paga sui propri Buoni del Tesoro, arrivando fino al 10,75 %. E ovviamente, più aumentava i tassi, più arrivava denaro estero assetato di profitti, e più l’economia si riscaldava. Fino a diventare rovente. Tutto il mondo voleva dare denaro in prestito ai 300 mila islandesi. Come stupirsi che l’abbiano accettato? Le famiglie l’hanno accettato, comprandosi a credito le cose utili e superflue; gli imprenditori l’hanno accettato, ampliando i loro affari (1). E le banche - che avrebbero dovuto saperne di più - l’hanno accettato altrettanto stupidamente, indebitandosi fino al collo ed oltre. L’Islanda conta tre banche, la Glitnir, la Kaphting, la Landsbanki: nomi da gnomi e infatti lo sono, piccolissime banche di uno Stato di 300 mila abitanti. Ma strapiene di denaro, si sono buttate ad acquisizioni all’estero, hanno fatto man bassa di banche in Svezia, Norvegia, Danimarca. Colpa loro? No, no: dovevano pur «retribuire» il capitale così generosamente loro prestato dal mondo. E del resto stavano cercando di diventare grandi; così capienti da contenere i risparmi del Giappone ricchissimo, di 100 milioni di abitanti. Gli imprenditori dell’isola nordica hanno fatto altrettanto. Jon Asgeir Johanneson, uno degli uomini più ricchi (dei 300 mila scarsi), ha acquistato il controllo di catene di negozie in Gran Bretagna: è diventato padrone di Hamley (giocattoli), di Oasis (abbigliamento), e persino del 10 % del gigantesco Woolworths, grandi magazzini. Tutto a credito, naturalmente. Le famiglie hanno fatto lo stesso: del resto anche i salari crescevano. Risultato: i prezzi delle case a Reykjavik (la capitale, 115 mila abitanti) sono raddoppiati in 2 anni. Le imprese hanno fatto lo stesso: e le azioni della micrscopica borsa d’Islanda sono, in due anni, quadruplicate. E più aumentavano case e azioni, più arrivavano soldi roventi, per via telematica, dal Giappone, dall’Europa, dagli USA: perché «investire» in Islanda rendeva sempre più: 200 % sugli immobili, 400 % sulle azioni. Il paradiso, per gli analisti ipnotizzati dalle percentuali. Nel loro gergo, l’Islanda era una «economia emergente» in crescita «impetuosa», e per di più «pienamente integrata nel mercato finanziario globale», mica come quei protezionisti dei francesi. E’ andata bene fino a gennaio. Quando un’agenzia di rating ha espresso un dubbio sulla sostenibilità di quell’indebitamento. Gli speculatori finanziari - che a loro dire amano il rischio - hanno avuto una delle loro ricorrenti crisi di fifa nera. Non hanno sottoscritto metà di un’obbligazione a cinque anni emessa dalla banca Kauphting che stava scadendo: della nuova emissione, pari a 1,25 miliardi di dollari, hanno coperto solo 600 milioni di dollari. Il resto, lo deve coprire la banca emettitrice, pagando 625 milioni di dollari sull’unghia ai creditori. Prendiamoci solo un momento per assaporare le cifre: la banca-gnomo Kauphting ha emesso titolo di debito per 1,25 miliardi di dollari. Pari a 4 mila dollari e più per ogni abitante dell’isoletta ghiacciata. Fatto sta che davanti alla banca Kaupthing si sono formate file di gente che voleva ritirare i depositi. La krona è crollata, e così le azioni dello Stato-città. E gli investitori, con un ordine telematico, in un secondo, hanno ritirato i capitali. E non è finita. Altri Paesi che offrono alti tassi d’interesse per attrarre capitali, appunto la Nuova Zelanda e l’Ungheria, si sono trovati a secco, abbandonati dai cavalieri di ventura, dagli arditi speculatori; così, solo perché la fifa blu è contagiosa, per nessun’altra ragione. Ora le agenzie di rating e le banche deplorano la follia del boom islandese, che mette in pericolo la finanza globale. Ora dicono, solo ora, che le piccole dimensioni del Paese e la «scarsa esperienza» delle sue banche-gnomo ad agire «nel mercato mondiale integrato» aggiungono difficoltà al crack. Ma di chi è la colpa? In ogni caso, a pagare non saranno i colpevoli. La Danske Bank, la seconda banca danese, nota in un rapporto d’urgenza i rischi del crollo della corona islandese. Il deficit corrente islandese, dice il rapporto, è pari al 20% del prodotto interno lordo: il peggiore dell’OCSE. Lo stesso vale per gli altri parametri macroeconomici dell’Islanda. Per questo il PIL islandese «potrebbe forse perdere il 5-10 % nei prossimi due anni». Ciò a causa di «un’espansione sorprendente del debito, del rapporto d’indebitamento e del rischio che non trova precedenti in quasi nessuna parte del mondo». Sorprendente per chi? Fatto è che il debito esterno ha ora raggiunto il 300% del PIL, mentre i debiti a breve termine sono quasi al 55%. Questo equivale al 133% degli introiti dalle esportazioni. Lo sbilancio del debito estero rispetto agli introiti è 4 volte quello dell’Italia. Dal 1990 il debito totale come percentuale del PIL annuo è più che raddoppiato, toccando il 350%. La crescita della massa monetaria è del 22% annuo. Il debito con l’estero «è oltre l’80% del debito totale», che «è quasi completamente denominato in moneta straniera. Di conseguenza l’economia islandese è diventata sempre più dipendente da capitali stranieri» e «dalla disponibilità di prestiti dai mercati finanziari globali. Questo solleva la questione se l’economia non versi soltanto in una recessione, ma attraversi una crisi finanziaria molto grave». La Danske Bank conclude: «precedenti crisi di questo tipo in altri Paesi hanno provocato forti reazioni dei mercati. In Thailandia (1997) e Turchia (2001) le monete hanno perso dal 50 al 60 %». Facendo il paragone con questi precedenti «possiamo concludere che l’Islanda quasi da ogni punto di vista sta peggio della Thailandia prima della crisi del 1997, e solo un pochino meglio della Turchia prima del 2001». Richard Fox, direttore della Fitch Rating (l’agenzia che ha bucato il boom islandese, mettendo un dubbio sull’insolvenza dell’isola), ora dice che è colpa degli hedge funds che hanno fatto affluire, e ora defluire, i capitali dall’Islanda. Proprio come gli hedge funds, l’economia islandese aveva un alto rapporto d’indebitamento con l’estero. «Se prendiamo il rapporto tra credito e PIL», ha spiegato Fox in un’intervista, «quello islandeseè uno dei più alti del mondo. Qualcuno ha descritto l’Islanda come il più grande hedge fund in assoluto» (2). Il risultato di tanto investimento di capitale, infine, eccolo qui: recessione, indebitamento impagabile, inflazione al 22 %, bolla edilizia e azionaria, disoccupazione. E bancarotta in vista. L’economia islandese poteva essere sana, con le sue sane attività pescherecce, se non fosse stata «aiutata» dai capitalisti esteri. Invece calerà del 5 o 10 % per almeno due anni. Gli islandesi, se non avessero avuto offerto tanto denaro, sarebbero cresciuti in modo naturale e solido; ora li aspettano anni di disoccupazione e miseria. Ma sono solo 300 mila, dopotutto. Però non dimenticateli. Quando vi ripeteranno l’eterna giaculatoria sulla «mano invisibile del mercato», quando vi ripeteranno che l’oggettiva «legge della domanda e dell’offerta» è infallibile nell’allocare il capitale nel «modo più efficiente possibile» (più di ogni investimento di Stato) sì che non serve alcuna regulation al «libero movimento di capitali», perché i capitali, guidati dalla sete di profitto, ne sanno di più - allora ricordatevi dell’Islanda. Rovinata da questi infallibili istinti animali. Maurizio Blondet Note 1) Ivar Simensen, «Hot money brings Iceland to boil», Financial Times, 28 marzo 2006. 2) EIR Strategic Alert, 30 marzo 2006. Copyright © - EFFEDIEFFE - all rights reserved.