Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  novembre 27 Giovedì calendario

EMILIANO FITTIPALDI PER L’ESPRESSO DEL 27/11/2008

Pochi sanno che i pm di Siena hanno ripetuto il miracolo delle nozze di Cana. Stavolta, però, l’hanno fatto al contrario. Se Gesù trasformò l’acqua in vino, i magistrati che indagano sullo scandalo di Montalcino hanno convertito centinaia di migliaia di bottiglie di Brunello in economico rosso da tavola. Nelle settimane scorse i giornali e qualche produttore, come l’azienda Castello Banfi, commentando il dissequestro di intere annate avevano parlato di caso "definitivamente chiuso", di "liberazione" delle botti. Il neopresidente del Consorzio di tutela Patrizio Cencioni (l’ente deputato al controllo, decapitato a giugno dal ministro Luca Zaia dopo che la Finanza aveva scoperto in molte cantine partite fabbricate - invece che con sola uva sangiovese - con mix di acini diversi) si era spinto oltre, annunciando "la piena rispondenza" al disciplinare, dunque il rispetto delle regole che definiscono il vero Brunello. Le preghiere delle aziende vinicole, in realtà, non sono state esaudite: quasi tutti i big coinvolti nell’inchiesta sono stati costretti a chiedere il declassamento per tornare sugli scaffali di supermercati ed enoteche, anche se con etichette meno pregiate. Poco meno del 50 per cento del Brunello 2003 di Banfi è stato retrocesso a Igt Toscana Rosso, e la stessa sorte è capitata a una quota rilevante delle annate 2004, 2005, 2006 e 2007. Una decimazione. "Molte imprese coinvolte nell’indagine", ha precisato la procura, "hanno violato i disciplinari del Brunello e del Rosso di Montalcino. Allo stato attuale rimangono sotto sequestro 4 milioni e 400 mila litri".
I custodi del gusto Il caso Brunello resta apertissimo, come la vicenda dei mancati controlli dei consorzi addetti alla vigilanza. Una questione, quella della certificazione Docg, Doc e Igt, complessa e spinosa. Chianti finto, mozzarella alla diossina, miscugli di oli spacciati per extravergine: il sistema che autentica la bontà dei tesori dell’alimentare ’Made in Italy’ fa acqua da tutte le parti. Non solo perché le ispezioni sul rispetto delle regole di produzione e sui pericoli per la salute sono poche, ma anche a causa della mancanza di indipendenza degli organismi che assegnano gli agognati bollini. Questo è il cuore del problema: i consumatori sono disposti a pagare a caro prezzo gli alimenti marchiati perché si aspettano che la qualità sia totale, dagli ingredienti alle procedure, e sia veramente garantita da strutture super partes. Non sempre è così.
In Italia controllori e controllati spesso e volentieri coincidono, sono due facce della stessa medaglia o, meglio, della stessa etichetta. Per quanto riguarda il vino, sono i consorzi, in pratica associazioni di produttori, a verificare la denominazione d’origine. In tutto sono 40. Gli enti che certificano i cibi ’griffati’ Dop e Igp riconosciuti dal ministero delle Politiche agricole sono invece una cinquantina, e sorvegliano oltre 150 filiere: dal Parmigiano Reggiano all’Agnello di Sardegna, dalla Ciliegia di Marostica allo Zampone di Modena. Una giungla dove si trova di tutto e di più: istituti privati e camere di commercio, piccoli laboratori di analisi, università e dipartimenti specializzati che hanno il delicatissimo compito di tutelare, oltre ai marchi, i consumatori finali. Un compito affidato anche a enti che non rispettano le norme europee, quelle che prevedono l’imparzialità assoluta dei controllori. Le direttive Ue sono chiare: devono essere obiettivi, scevri da convenienze finanziarie e permettere la partecipazione di tutti i soggetti della filiera senza il predominio di interessi su altri. Insomma, dei veri arbitri.
Consorzi in forma L’inchiesta de ’L’espresso’ parte dal Parmigiano Reggiano che, insieme a Prosciutto di Parma, al San Daniele e al Grana Padano pesa sul 70 per cento del fatturato complessivo (ben 9 miliardi di euro) del sistema Dop. Le forme più famose del mondo sono autenticate dal ’Dipartimento Controllo qualità Pr’. Il numero delle verifiche messe a segno è notevole: nel 2007 sono arrivate a quota 2.589. Peccato che gli ispettori disponibili siano solo otto, e in media riescano a visitare un’azienda ogni due anni. "Ma i produttori di formaggio grattugiato", spiega il direttore Mario Zannoni "vengono testati anche una volta ogni tre mesi, lì il rischio di frodi è più alto". L’anno scorso i parmigiani ’non conformi’ sono stati solo 13, un’inezia. Tanto che qualcuno sospetta che l’attività possa essere condizionata da una sorta di conflitto di interessi tra Dipartimento Controllo e Consorzio di produttori. In effetti, scorrendo l’atto costitutivo della società fondata nel 1998 per la vigilanza, tra i 27 soci compare lo stesso Consorzio, cooperative di latterie e caseifici, aziende agricole e coltivatori diretti. Tutti soggetti impiegati nella filiera del parmigiano. Solo due soci sono ’istituzionali’: la camera di commercio di Reggio Emilia e quella della Lombardia. Anche i vertici del Dipartimento, che da statuto hanno "ampi poteri" e "provvedono a deliberare la costituzione dei comitati, quale ad esempio è quello di certificazione", sembrano lontani dalla terzietà chiesta dalle direttive Ue: l’attuale presidente è Andrea Lori, allevatore, già capo della sezione modenese del Consorzio e attuale presidente di Coldiretti Modena, mentre i due vicepresidenti sono a capo di una coop di latterie e di un’associazione di allevatori.
Sicurezza a fette Il Parmigiano è in ottima compagnia. I prosciutti Parma e San Daniele sono certificati da due enti privati: l’Istituto Parma Qualità e l’Istituto Nord-Est Qualità. Organismi che nascono a fine anni ’90, subito dopo le regole europee che obbligano ad affidare le verifiche sul Dop a strutture imparziali. Oggi le due società mettono la firma sulla qualità dei prosciutti, dello Speck dell’Alto Adige, della Mortadella di Bologna, del Cotechino di Modena, del Salame di Cremona e del Gran Suino Padano. Un ghiotto affare. Ma come mai i due istituti si sono specializzati sui maiali? Per svelare l’arcano basta scorrere l’elenco dei proprietari. Sono tre: i consorzi del prosciutto di Parma, quello che tutela il San Daniele, l’Associazione industriale delle carni e l’Unione nazionale associazione produttori suini. Gli azionisti, in pratica, sono salumerie, macellerie, fabbriche di salami e affini. Gli istituti sono tra i più seri in circolazione, come dimostra l’alto rapporto tra le ispezioni e i prodotti ’bocciati’, ma l’intreccio degli interessi resta colossale.
Etichetta fai da te Anche il Taleggio Dop e il Quartirolo lombardo si sono fatti il loro organismo di controllo. Certiprodop, società di Crema, è di proprietà (al 38 per cento) dei due consorzi, mentre gli altri soci forti sono due misteriosi privati senza cariche in azienda. C’è anche un’associazione dei consumatori, ma pesa solo sull’1 per cento. Il Carciofo romanesco, l’Olio di Lametia e quello di Terra d’Otranto, insieme alle Clementine di Calabria vengono garantiti invece da Agroqualità, dietro cui ci sono ben 63 soci. In questo caso chi comanda è il Rina, che possiede metà delle quote: pochi sanno che il Registro navale italiano, oltre a certificare la sicurezza dei mercantili, si è gettato anche nel settore passando dalle petroliere all’extravergine.
Questi custodi del gusto verace sopravvivono grazie alle aziende che vogliono il Dop e l’Igp: la principale fonte del reddito è il cliente, che paga i controlli attraverso un tariffario approvato dal ministero. Si va da poche decine a qualche migliaia di euro, dipende dal prodotto e dalla grandezza dell’azienda. "Un fatto", evidenzia una norma europea da poco approvata, "che costituisce una potenziale minaccia all’imparzialità". Di sicuro il business del Doc garantisce un mucchio di quattrini. Una società storica come Suolo e Salute, nata nel 1969 e gestita esclusivamente da tecnici, certificando prodotti tipici, biologici e tracciabilità arriva a fatturare 4 milioni l’anno, mentre un ente medio-piccolo come la bolognese Check Fruit (’timbra’ tra gli altri l’Arancia rossa di Sicilia) incassa 200 mila euro. Il più grande d’Italia è il Csqa, emanazione dell’agenzia regionale Veneto agricoltura: con i Dop ha un giro d’affari da 1,5 milioni l’anno. Nel suo borsino ben 40 leccornie: Grana Padano e Mozzarella di bufala come punte di diamante. "Noi siamo un ente pubblico non profit" racconta il direttore Pietro Bonato "e siamo davvero imparziali. I Consorzi si sono costruiti organismi su misura, che ci fanno concorrenza sleale". A parte il testacoda tra controllori e controllati, un problema che caratterizza la rete Doc e Dop anche in altri paesi, gli organismi di verifica riconosciuti non subiscono alcuna ispezione dall’alto: il ministero delle Politiche agricole non ha nemmeno un database della loro attività (solo rapporti cartacei mai elaborati) e la vigilanza sul loro operato resta una chimera. Tutto dovrebbe cambiare entro il 2010, quando i certificatori dovranno essere accreditati con regole rigide da un unico soggetto. "Sono in carica da soli 5 mesi, e ho ereditato un sistema che non funziona: sugli organismi faremo chiarezza, non proteggeremo nessuno", dichiara il titolare del dicastero Luca Zaia: "Abbiamo le mani libere. La pulizia gioverà soprattutto a chi lavora correttamente. Come testimonia la vicenda del Brunello, non faremo sconti". Anche i rapporti tra ’vigilantes’ e autorità sanitarie andrebbero rivisti: paradossalmente il veneto Csqa potrebbe aver concesso il marchio Dop a tonnellate di mozzarella alla diossina. "Noi verifichiamo il discliplinare, le proteine", chiosano dal centro, "analisi così delicate le può fare solo l’Asl".
Marchio Dux In attesa della rivoluzione, la soppressata, il capocollo e la salsiccia di Calabria Dop saranno garantiti ancora dall’Istituto Calabria Qualità, in mano all’Associazione regionale dei suinicultori, mentre il campano Ismecert, che certifica il Pomodoro San Marzano e il Limone di Sorrento, sarà ancora presieduto da Vito Amendolara, numero uno della Coldiretti regionale. Anche le specialità piacentine hanno il loro organo indipendente, l’Ecepa, i cui soci sono produttori e trasformatori di coppa e pancetta, mentre le botteghe delle Acciughe sotto sale del Mar Ligure Igp e del Basilico genovese Dop hanno preferito rivolgersi alle Camere di commercio di Genova, La Spezia, Savona e Imperia. "I dati? Abbiamo solo quelli del capoluogo: nel 2007 tre ispettori hanno effettuato 7 accertamenti", dicono dalla Liguria. La Camera di Roma certifica invece vini, olii, formaggi e, ovviamente, l’Abbacchio romano. Le statistiche al telefono non le danno, ma il responsabile spiega che al Dop ci lavorano in quattro. "Facciamo il documentale, gli ispettori sono esterni, non abbiamo il know-how degli agronomi. Ma la Camera è all’avanguardia. Pensi che c’è un laboratorio interno per i test. L’ha voluto Mussolini in persona".