Mustapha Kessous, La Stampa 25/11/2008, pagina 47, 25 novembre 2008
La Stampa, martedì 25 novembre Non ha sentito la lama che le trafiggeva la schiena: «Credevo fosse un pugno violento», oggi Maira Mkama sorride
La Stampa, martedì 25 novembre Non ha sentito la lama che le trafiggeva la schiena: «Credevo fosse un pugno violento», oggi Maira Mkama sorride. Per sette volte uno dei tre skinhead che l’hanno aggredito le ha tagliato il corpo. In una strada senza luce, in un quartiere popolare di San Pietroburgo, a nord della città, era a terra. Sull’asfalto gelato, i crani rasati la assalivano: senza insulti, senza rumore. Colpi violenti e i minuti passavano... Maira si è messo finalmente a urlare. Gli skinheads sono evaporati. Era l’11 novembre del 2007, a mezzanotte. Maira Mkama, 24 anni all’epoca, stava per raggiungere un amico per bere una birra alla salute della loro squadra: lo Zenit San Pietroburgo che aveva appena vinto il campionato russo. Lo sa perché quella notte ha perso un rene? «Sì», sospira lui. Tanzaniano da parte di padre, russo da parte di madre, il ragazzo ha ereditato una pelle color caffè. I suoi parenti credono che dei tifosi dello Zenit l’abbiano attaccato per festeggiare a loro modo il successo del club. Lui non lo pensa. stato un raptus gratuito, non ha visto nessuno in faccia, solo teste rasate, una descrizione troppo vaga per la polizia. Nessuno saprà riconoscere gli skinheads, ma è certo che in Russia essere neri significa vivere con l’angoscia sulla pelle. Il centro Sova, un’organizzazione per la tutela dei diritti dell’uomo basata a Mosca, ha catalogato 86 morti per razzismo nel 2007. Il direttore del centro, Alexander Verkhovsky, ha già messo insieme 80 casi analoghi nel 2008. La maggior parte dei crimini si sono verificati a Mosca, ma San Pietroburgo, la seconda città più grande della Russia, non è da meno. (...). «Bisogna sempre stare attenti» ripete Désiré Deffo. Camerunense di 42 anni, presidente dell’associazione African Center, racconta che può andare da solo al cinema, a teatro, anche di notte: «C’è un solo posto dove non posso andare, lo stadio. Lì rischio la vita». «Vero, non ho mai visto un nero in curva», riflette Vadim Tulpanov, capo dell’assemblea legislativa di San Pietroburgo, un amico del presidente Dmitri Medvedev e di Vladimir Putin, entrambi fan dello Zenit. Nel piccolo stadio Petrovsky (22 mila posti), lo Zenit si sta facendo un nome in Europa, la squadra più ricca di Russia, con oltre 100 milioni di euro come budget grazie allo sponsor Gazprom. Ha vinto la Coppa Uefa nel 2008 e la Supercoppa contro il Manchester a inizio stagione. Entrata nella Champions League deve giocarsi con la Juve la permanenza nella prestigiosa competizione. Il 12 marzo 2008, nella partita Uefa contro il Marsiglia, si è fatta conoscere per i suoi tifosi allergici ai neri. Per accogliere gli avversari francesi, gli ultras si sono coperti il viso con i cappucci bianchi del Ku Klux Klan. Hanno imitato i versi della scimmia, lanciato banane. Uno scimpanzé di peluche con la maglia del Marsiglia è stato impiccato in curva. « stato divertente», butta lì Dmitri, 22 anni, un fan dello Zenit che dice di appartenere a un gruppo di estrema destra, i «Membri»: « importante trattare i negri come negri. Siamo dei patrioti, il posto dei negri non è qui, ma sugli alberi, in Africa». (...) Lo Zenit ha pagato una multa per la scimmia appesa: 36.880 euro, per razzismo, accusa che ancora oggi il club rifiuta. Per Pape Diouf, il presidente del Marsiglia, (l’unico di colore in Francia ndt): «La cifra richiesta è più che altro incoraggiamento a farlo ancora». Lo Zenit è noto anche per essere tra i pochissimi club a non avere giocatori di colore. L’Uefa ne ha chiesto il motivo e conferma di aver sentito che lì esiste la regola non scritta di non acquistare neri. Risposta dello Zenit: « solo un caso». Nel 2007, l’allenatore olandese Dick Advocaat ha dichiarato di non poter prendere giocatori neri perché avrebbero dei problemi con la curva. Poi ha smentito. All’uscita da un allenamento, «Le Monde, gli ha richiesto il perché. «Non è una questione di colore...», non ha potuto finire la frase perché Alexei Petrov, l’addetto stampa, lo ha portato via spiegando che «la gente vuole dire brutte cose su di noi». (...). Alexander Alekhanov, presidente del Nevsky Front, il più importante gruppo di tifosi si danna per il club: «E mi va bene tutto quello che fanno, ma non capisco perché bisogna comprare tanti legionari». Intende stranieri. E se domani comprano un nero? « una questione delicata, con gli altri gruppi ci siamo messi d’accordo su una cosa: non parlare mai di questo». «Non è nella nostra tradizione accogliere neri», spiega Anton Riabkov, 24 anni. «Questo club è la nostra identità». «Non avere neri in squadra è la sola cosa che ci differenzia dai nostri rivali di Mosca», aggiunge Maxim Lechenko, 23 anni, un hooligan che ama battersi contro «l’omologazione moscovita». «E poi i neri barano, simulano», racconta Alla Nafanja, 28 anni, tesserata del 15° settore. Però ci sono degli stranieri allo Zenit? «Sì», risponde il suo compagno Dmitri, 23 anni, soprannominato Chip, «ma sono bianchi e buoni». Il nigeriano Peter Odemwingie, attaccante del Lokomotiv Mosca, assicura di non aver mai avuto problemi nelle sue trasferte a San Pietroburgo, poi scoppia a ridere e ricorda di quando hanno tirato una banana a un suo collega di colore «lui l’ha raccolta e se l’è mangiata». (...) Per Jean-Michel de Waele, professore di scienze politiche all’università di Bruxelles: «al di là del nazionalismo proclamato ai tempi dell’Urss, resta un vero choc culturale per la Russia vedere dei neri». Secondo Désiré Deffo, il presidente dell’African Center, ci sono 3000 africani a San Pietroburgo, città di 5 milioni di abitanti. Lui crede che la mentalità migliorerà: «Visto che lo Zenit giocherà sempre più partite all’estero anche i russi si sentiranno stranieri». Dmitri, il giovane tifoso vicino alla destra estrema non comprende la logica: «Un russo è un bianco, non può sentirsi straniero». San Pietroburgo ha lanciato 2 anni fa il programma «Tolleranza». Due milioni di euro all’anno per esposizioni di artisti stranieri, partite di calcio tra diverse associazioni etniche. «I giovani sono stati abbandonati dopo la caduta del socialismo. Lo stadio è un modo di ritrovarsi», spiega il responsabile del progetto, Vladimir Mikhailenko, «la soluzione è farli sentire parte di una grande città di cultura». L’idea fa sorridere Hamidou Bakayoko. Lui è malese, ha 46 anni e da 26 vive a San Pietroburgo, ha sposato una russa e hanno un bambino che impazzisce per il calcio, ma non lo faranno mai andare allo stadio: «La Russia non è un Paese per neri». Mustapha Kessous