Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  novembre 20 Giovedì calendario

Macchè crisi. ”Crisi” è un eufemismo pallido come la faccia d’un redattore del turno di notte, o di un amministratore delegato davanti alle voragini di bilancio

Macchè crisi. ”Crisi” è un eufemismo pallido come la faccia d’un redattore del turno di notte, o di un amministratore delegato davanti alle voragini di bilancio. Pare che per l’editoria l’Apocalisse sia in agguato, e che i giornali non siano stati avvertiti. Secondo i calcoli di Philip Meyer, uno dei più competenti esperti americani, l’ultima copia sgualcita del New York Times sarà acquistata nel 2043: l’emorragia di vendite dei quotidiani è inarrestabile, e il giornalismo cartaceo annegherà nel proprio inchiostro, soppiantato dal web, dalle tv tematiche e dal tradimento dei lettori. Secondo il direttore di questo quotidiano -che ha vissuto l’era del piombo, guadato quella della fotocomposizione, raggiunto quella del computer, ed è sopravvissuto- la carta stampata non morirà, almeno finché esisteranno un letto, un bagno, una spiaggia con ombrellone dove poterla sfogliare. Noi guardiamo con rispetto la prima scuola di pensiero e speriamo fortemente nella seconda. Ma è un fatto che per i quotidiani questo sia un autunno nero. Il più nero degli ultimi decenni: la pubblicità è in retrazione (salvo che su Internet), si agita la mannaia del taglio dei finanziamenti pubblici, le edicole sono meno frequentate dei camposanti. Per fare un paragone: nel 1990 in Italia le copie vendute dei giornali erano 8.900.000, oggi rasentano i 5.400.000. Oddio, la grande crisi è generalizzata. Se negli Usa testate storiche come il Los Angeles Times, Newsweek (-24% sulle vendite) o Time mostrano perdite da bollettino di guerra, in Italia, per il 2009, sono previsti, solo nei giornali, almeno 700 prepensionamenti. Almeno. Ma i quotidiani come affrontano la tempesta? Prendiamo l’esempio di Repubblica. Qualcuno cominciò a subodorare che lì la pacchia stava finendo quando, nel novembre 2004, il quotidiano si trasferì dalla storica e sciccosa sede di piazza Indipendenza, a due passi dal centro storico e dall’ombelico romano del Palazzo, a quella più anonima di via Cristoforo Colombo verso l’Eur- tutti raccolti stretti stretti accanto ai cugini dell’ Espresso-. Repubblica, intendiamoci, è un colosso. NEL SELVAGGIO WEB Lo è sin dal 1976, anno in cui «mettemmo il seme a dimora nella tipografia di Roberto Tumminelli sita in Roma dentro la cinta universitaria su una rotativa offset che tirava in bianco e nero 20mila copie orarie tra frequenti rotture della carta e oscuri brontolii dei macchinari di seconda mano», scrive il fondatore Eugenio Scalfari. E lo è sin da quando la sua missione di giornale-partito, le sue firme e le sue campagne che danzavano sui caratteri bodoniani e battenti dei titoli (tipograficamente quelli con le ”grazie” che a differenza di quelli ”bastoni” dei concorrenti sono più d’impatto) duellavano sulla hit parade delle vendite col Corriere della sera. Bene, oggi anche Repubblica soffre la crisi. Certo, «C’è una crisi della carta stampata in tutto il mondo, perchè la free press da un lato e l’esplosione dei mezzi veloci (Internet, radio e tv) dall’altro offrono informazione senza costo e in grande quantità» ci dice il suo direttore Ezio Mauro «tuttavia i siti dei giornali quotidiani sono in testa alla classifiche anche su Internet, dunque il marchio dei giornali è considerato il più autorevole per certificare la qualità dell’informazione, anche gratuita. In più, se si sommano i lettori del quotidiano di carta e i lettori del suo sito, si arriva ad un’audience complessiva mai raggiunta nella storia contemporanea». E ha ragione. Specie sul fatto che Repubblica in Internet vanta 10 milioni di utenti e la leadership italiana (1 milione al giorno); e che, addirittura, ha lanciato l’8 aprile scorso la sua decima edizione locale, a Parma, esclusivamente sul web creando nuove formule pubblicitarie, puntando sulla collaborazione degli utenti, che possono diventare inserzionisti con facili operazioni on line, che consentono di pianificare una propria campagna . Ha ragione, Mauro. Ma il punto non è Internet. Il punto è che Repubblica ha problemi diffusi sull’edizione cartacea. In primis, ha un organico stimato in 722 dipendenti di cui 460 giornalisti, ciascuno dei quali pur non avendo in dotazione l’automobile (come avviene, per esempio al gruppo Sole24 Ore), è fornito di un computer portatile e di un telefonino, non considerati benefit ”poiché usati solo come ”strumenti di lavoro” (una vittoria sindacale). E tanto per cominciare l’azienda, proprio sull’organico prevede tagli strutturali: ne stima la diminuzione di almeno 150 unità in tutto il gruppo entro il prossimo triennio nell’ambito di una riduzione di costi di 50 milioni (comprensiva di altre voci, oltre all’organico). Questo potrebbe acuire i già tesi rapporti tra redazione ed editore che vanno a fasi alterne. Diciamo che si sopportano. «I giornalisti aspettano da 3 anni e mezzo la piattaforma per il rinnovo del contratto nazionale. I rapporti con la proprietà ultimamente sono stati tesi: l’azienda, prima, si era rifiutata di aprire ogni confronto, Poi, dopo i sei giorni di sciopero durante il congresso del Pd l’anno scorso, siano addivenuti a degli accordi con l’ingegnere Carlo De Benedetti» ci spiega Andrea Montanari del Cdr, il sindacato interno «tali accordi, per esempio, riguardano le ”chiusure” del giornali: il quotidiano la anticipa alle 23. 15, e le edizioni locali arrivano alle 22.30. previsto un premio mensile a deskisti (i colleghi che impaginano titoli e pezzi, ndr) e grafici se chiudono nei tempi giusti, rispettivamente di 1200 e 1000 euro. L’obbiettivo è di realizzarle, le chiusure, al 95% ma se sfori di 2/3 non vieni pagato. In più c’è la presa d’atto: in futuro varrà sempre più la multimedialità, la capacità di operare sia sul cartaceo che sul web; abbiamo previsto di aderire ai progetti interni sul tema in cambio di indennità (200 euro) e corsi di formazione». Gli obbiettivi potrebbero reggere. Sempre che in famiglia si mantengano buoni i rapporti. LITI IN FAMIGLIA  noto, infatti, che causa un diverbio interno tra il padre l’ingegner Carlo De Benedetti, socio di riferimento del Gruppo e il figlio Rodolfo primo azionista, l’azienda doveva essere divisa. Rodolfo riteneva che la parte editoriale della Cir (Repubblica, L’Espresso e i quotidiani locali della Finegil) fosse il peso morto che affossava il resto delle attività virtuose (Sogefi, Sogenia, Hss, Oakwood, Jupiter, energia, finanziarie e il resto). Carlo gli aveva ricordato che «senza la parte editoriale non avremmo avuto il resto…»; Rodolfo aveva abbozzato e il nuovo progetto era pronto. Scorporo della società. Al padre sarebbe rimasta la Cir1 -i bistrattati giornali - per evitare di esporla a critiche strumentali sull’eventuale utilizzo dei propri giornali in appoggio degli interessi finanziari e industriali. Al figlio sarebbe toccata la Cir2, cioè, appunto, gli interessi finanziari e industriali. Ora che la crisi avanza a colpi di machete, il ”mercato non richiede più il progetto di scorporo”. Cioè fermi tutti, si attendono tempi migliori. Perché, -in tutta onestà- a scorrerli, i bilanci non affascinano. CIfre non affascinanti Qualche cifra, giusto per annoiare. Il fatturato dell’intero Gruppo L’Espresso, a settembre era di 543,2 milioni di euro (-3,3% rispetto all’anno precedente). Quello della ”divisione Repubblica” è di 260, 9 milioni di euro (un -3,9% rispetto all’anno scorso). I ricavi da diffusione (605.952 copie medie con 158.874 copie di resa) sono sostanzialmente stabili rispetto all’anno scorso, ma hanno avuto 6 uscite di più, compensando quelle bruciate l’anno scorso dallo sciopero; comunque, ad oggi, la perdita è del 8,9% (era -4,1% a settembre), con 549.326 (erano 618mila l’anno scorso e 593mila a settembre). Neanche la situazione della raccolta pubblicitaria è esaltante. Certo è così per tutti: i dati Nielsen globali certificano la crescita zero della pubblicità nei primi nove mesi dell’anno rispetto al 2007 . Repubblica conferma il dato. Al settembre 2008 la divisione ha registrato una flessione del 10% rispetto al 2007; ma dopo la crisi è scesa al 15% e gli addetti ai lavori presumono che possa arrivare al -20% entro fine anno. Basta guardare la vendita odierna della singola pagina del giornale che fa apparire quella venduta fino all’anno scorso cartapergamena bordata d’oro zecchino: oggi passa da 40-50 mila euro a 16 mila (ma può crescere in base al ”settore merceologico”, dicono i tecnici) ed è in calo. Senza contare che c’è un problema sulla storica concessionaria, la Manzoni, per la quale si sta cercando -rivela ItaliaOggi- un nuovo amministratore delegato. Dato che, sino ad ora, il settore era direttamente trattato dall’ex ad del gruppo Marco Benedetto, uno che la materia la masticava assai e -come Thomas Jefferson- riteneva le inserzioni ”le uniche verità affidabili d’un giornale”; e dato che il nuovo ad Monica Mondardini, proveniente dalle Generali Spagna gode sì fama di tagliatrice di teste, ma avrebbe poca dimestichezza con l’advertising. Fin qui la crisi schiaffeggia, ma si tiene botta. Ora, il tasto dolente per tutte le testate sono le vendite. Aperta parentesi. Inutile prenderci in giro: noi cronisti siamo probabilmente destinati all’estinzione come il panda gigante e il camoscio d’Abruzzo. La gente non legge più, sia perché mancano i soldi; sia perché le nuove generazioni preferiscono i nuovi media -gratuiti- ; sia perché, onestamente, i giornali sono uguali e spesso malfatti come spiega, peraltro un saggio di Alessandro Barbano appena uscito ”L’Italia nei giornali fotocopia- Viaggio nella crisi di una professione” (FrancoAngeli). Per sopravvivere, i suddetti giornali hanno bisogno di due elementi: le vendite e la pubblicità. Ma è un serpente che si mangia la coda: con le vendite in calo anche la pubblicità non arriva. Sicché le vendite debbono essere, in qualche modo, tenute su, vitaminizzate, gonfiate come un palloncino. E diventano un business che ha molto d’industriale e poco di giornalistico. Dunque. Le copie tirate e il calcolo approssimativo dei lettori non contano, sono solo una chimera, un’illusione di grandezza; contano soltanto le copie vendute. Repubblica ufficialmente tira 765.002 copie e ha 3.069.000 lettori. E vende oggi 549.326 mila copie. Le quali sono divise, secondo la certificazione l’Ads (l’Accertamento Diffusione Stampa, il demiurgo che supervisiona il settore) in varie caselle: ”abbonamenti’ (che gemmina in ”abbonamenti pagati”, ”abbonamenti gratuiti”, ”abbonamenti quote associative”, ”abbonamenti gratuiti” ecc…), ”vendite in blocco”, ”omaggi”, ”altre vendite” (il canale più misterioso ), e ”vendite secondo disposizione di legge” . Sono queste ultime - ossia le vendite ”nude” smerciate esclusivamente in edicola- quelle che danno la misura esatta della salute di un giornale. E tali vendite sono sempre più spesso frutto di straordinarie alchimie manageriali, perlopiù incontrollabili (a meno che uno non si torturino i distributori per farli parlare o si ipnotizzi direttamente l’editore). Il gioco di prestigio sta nel far passare nella casella ”vendita edicola” le copie dalle altre caselle, senza che si veda il trucco. I sistemi cambiano a seconda della creatività: c’è chi si autocompra le copie; chi le fa comprare al concorrente che ti vende le sue; chi le compra dopo averle vendute in blocco ad aziende che stanno al gioco di buon grado. C’è chi trasforma (con giri contabili ed estratti conto complicatissimi da spiegare) il service che gli fa il porta a porta (dove non è previsto il cosiddetto ”diritto di resa”) in distributore o ”capoedicola”, così inserendo di fatto le copie in questione nel ”venduto secondo disposizioni di legge”. Anche se, in realtà, quelle stesse disposizioni di legge, che prevedono ”la cessione delle copie a sconto fisso di 18,772% non trattabile sul prezzo di copertina”, vengono totalmente eluse. Vendite e magie «Le copie vendute, allo stato dei fatti non sono calcolabili, ognuno dà la sua versione ma cosa l’è davvero nessuno lo sa. Gli editori si autocertificano, non esiste un monitoraggio preciso; ci sono gli omaggi, gli abbonamenti (in calo, nel caso di Repubblica del 15%, ndr)» conferma Mario Farina dell’Ads « Poi gli editori fanno il loro gioco. Se io, editore, ho un distributore che mi garantisce la vendita di 100mila copie e me le paga anticipatamente, non mi interessa, in fondo, se quelle copie vanno in abbonamento o in edicola, o da altre parti. Certo gli abbonamenti sono quelli facilmente controllabili. Però esistono tante altre forma di vendita, il Porta a porta, i panini. E l’estero? L’esportazione non la contiamo, chè va tanto tenuta in considerazione al giorno d’oggi?». Certo l’estero conta. Specie nei grandi giornali da dove si sussurra che si possano far traslare le copie clandestine come chiatte di marocchini verso le coste di Lampedusa. Ovviamente sono trucchetti di prestigio difficilmente provabili. Ora -chiudendo parentesi- , Repubblica ufficialmente in edicola vende 420.649 mila copie, non ha panini italiani e, in effetti, si sta liberando di omaggi e affini, le copie platealmente ”drogate”. Ne vende 420.649, di copie, ma -secondo i ragionamenti sopra articolati e i rumors che circolano nell’ambiente - potrebbe venderne ufficiosamente 250mila e nessuno si scandalizzerebbe. Certo, se il dato fosse vero, verrebbe disattesa la formula che determina la soglia di sopravvivenza di un giornale: 1giornalista ogni 1000 copie vendute; e si sballerebbero tutti gli equilibri di mercato. Ma ci sarebbe poco di sconveniente: tutti tendono a sopravvivere. Naturalmente, se fosse vero, anche gli altri giornali sarebbero nelle stesse condizioni. Se fosse vero. C’è da dire che il quotidiano di via Colombo va forte sui collaterali, gli allegati che lo farciscono come un sandwich, ma che hanno realizzato un margine operativo di 17, 9 milioni, in crescita del 13,5 % rispetto al 2007. «I collaterali di Repubblica 2008 sono stati Tex a colori le Short Stories, i Corsi di inglese e di spagnolo in dvd e di scrittura, la Cucina Regionale, i dvd sulla Lirica, la collana sul Noir Italiano, il Giardinaggio, La Storia Illustrata. Nel 2007 sono stati venduti 19 milioni di pezzi. In media, per singola uscita si può variare da vendite di 150mila pezzi (Tex) a 10/20.000 pezzi ( le collane minori, più di nicchia)» afferma Stefano Mignanego, relazioni esterne Gruppo L’Espresso. Certo -obietteranno i puristi- se ora ci si mette a contare pure le sparatorie di Tex, i melomani e i lettori dal pollice verde, mica vale. No, invece: vale. Con l’anima di un giornale c’entrano poco, ma sono un aiutino. E sbocciano altre forme d’aiutini agli editori, forse poco etiche ma tutte legittime, sia chiaro. Prendete lo spinoso capitolo dei contributi. I famigerati- contributi governativi sono per l’editoria un business da 500 milioni di euro all’anno: 190 quelli diretti di cui gode -tra gli altri- anche Libero; e 310 gl’indiretti, di cui godono molto i vescovi, Confindustria, Mondadori. Poca gente conosce la fondamentale differenza (spiegata a lato). Ovvio: se li tagliassero, questi stramaledetti contributi per molti di noi sarebbe seccante, per altri la ghigliottina. Intanto, per Repubblica, qualcosa sta cambiando. Anche nella confezione stessa. Non è più solo l’organo del Pd, politica macinata a rullo. molto curato, per esempio, il ”giornale nel giornale”, R2 , una quindicina di pagine di ”inchieste e approfondimenti”, che, pur di buona lettura, tutti i giorni -secondo operatori e lettori - rallentano lo sfoglio, si spiluccano e danno una generica ”idea di spreco do tutto quel ben di dio”. Forse non è un caso che due pagine di R2 siano state già tagliate (con due da tabelle e tv). Poi c’è il ritorno del direttore alla cronaca. Ezio Mauro, il cronista Lo scorso gennaio, dopo essersi occupato personalmente della spazzatura napoletana, Ezio Mauro aveva risalito la penisola per approdare nella sua Torino e raccontare la tragedia dei lavoratori morti della Thyssen Krupp e della condizione operaia. Quell’exploit -secondo Prima Comunicazione- ”fu una sorpresa anche per la redazione torinese del quotidiano che non era stata informata dell’incursione (con una sola eccezione, l’inviato Paolo Griseri, ex Manifesto, esperto di cronaca politica e sindacale). Il ritorno alle inchieste di Mauro, tignoso specialista negli anni ”80, fece sorgere diverse interpretazioni tra i redattori di Repubblica”. La prima: Mauro sente – il bisogno di lanciare con le sue inchieste un segnale, forse un allarme, a una forza politica (il Pd ) che rischia la narcosi rispetto ai grandi temi sociali del Paese”. La seconda: Ezio Mauro, data la crisi di vendite, avrebbe voluto dare ai suoi cronisti l’esempio concreto su come si lavora, ”scendendo in campo”. Ezio Mauro risponde così, con un generico augurio: «Il problema è che siamo in una fase di passaggio, dunque di incertezza, tra equilibri vecchi e nuovi. Il risultato sarà alla fine una sorta di quotidiano totale, che viaggia sul nastro Internet 24 ore su 24 sette giorni su sette, e al mattino mette in mano al lettore la sua edizione su carta, dove organizza il flusso di notizie, lo struttura, dà una gerarchia, recupera gli antecedenti, si proietta sulle conseguenze, illumina gli interessi palesi o occulti della vicenda e si prende infine la responsabilità di un commento. Questa funzione che rende il cittadino non solo informato, ma consapevole, è indispensabile. Ecco perchè il quotidiano non morirà mai» Speriamo, direttore, speriamo...