Quale etica converte Tremonti di Aldo Schiavone, la Repubblica, pagg. 1-23, 24/11/2008, 24 novembre 2008
Pochi sembrano accorgersene: ma la recessione in cui siamo entrati non ridisegna solo il tessuto sociale ed economico del Paese; sta ridefinendo anche il suo profilo culturale
Pochi sembrano accorgersene: ma la recessione in cui siamo entrati non ridisegna solo il tessuto sociale ed economico del Paese; sta ridefinendo anche il suo profilo culturale. La posta è alta: nulla di meno che l’ egemonia intellettuale e morale sulla nuova Italia che, giorno dopo giorno, sta prendendo corpo sotto i nostri occhi. Giulio Tremonti lo ha capito perfettamente: e il discorso che ha appena pronunciato per l’ inaugurazione dell’ anno accademico all’ Università Cattolica di Milano ha tutti i caratteri di un autentico manifesto ideologico; un annuncio interamente proiettato sui tempi che ci aspettano. Esso segna la fine, per l’ attuale maggioranza di governo, della lunga stagione dominata dagli "spiriti animali" evocati con tanto successo dal primo berlusconismo - vitalismo consumistico, esaltazione del privato, destrutturazione delle regole - e suggerisce alla destra italiana un nuovo e assai più impegnativo orizzonte ideale, e un ben diverso quadro di valori. una vera e propria svolta, che non dobbiamo sottovalutare. E in questo senso Tremonti può ben essere considerato tra coloro che il Whashington Post chiama, non senza qualche ironia, "i convertiti", passati cioè bruscamente dalle sponde del più intransigente purismo di mercato, all’ invocazione quotidiana e incalzante di più Stato e di più regole - anche se nel suo caso (glie ne do atto con piacere) si tratterebbe di una conversione della prima ora, che conclude per lui un ripensamento aperto da una precoce previsione della crisi che stava per verificarsi. Un’ idea campeggia - forte e solitaria - al centro della sua proposta. Dobbiamo essere capaci di immettere più etica nell’ economia, egli dice. Di costruire un’ «economia sociale di mercato» (la formula non è nuova, e Tremonti stesso ne indica le fonti non senza eleganza dottrinaria), in cui al «paradigma della domanda di beni di consumo», fondata sull’ indebitamento e sul tutto subito, si possa sostituire «un paradigma morale, civile e politico» che «organizza la domanda sugli investimenti collettivi fatti per il bene complessivo: non per il presente ma per il futuro». difficile non essere d’ accordo con lui, soprattutto da parte di chi ha scritto da anni che la rivoluzione della tecnica «ha bisogno di etica, e di storia attraversata da disciplinamento morale». Ma non è questo il punto. Cerchiamo invece di guardare le cose più in profondità. A prima vista, sembrerebbe di essere di fronte alla ripetizione - a parti rovesciate - di uno schema già noto. Al tentativo cioè di riprodurre un’ operazione speculare a quella compiuta da molti socialismi europei fra la metà degli anni Ottanta e gli inizi del nuovo secolo. Allora, per sopravvivere in un’ epoca ancora dominata dall’ espansione impetuosa della nuova economia spinta dalla rivoluzione tecnologica, partiti di sinistra si adattavano a politiche anche ultra liberiste. Oggi, al contrario, di fronte alla fine rovinosa di quell’ ondata, forze di destra sono costrette, per sopravvivere, ad adottare programmi e linee culturali proprie della più classica tradizione della sinistra (a suo modo, lo dice lo stesso Berlusconi: il mio governo «fa cose di sinistra»). Già questa prima osservazione ci dice parecchio: che il vento è mutato, e il problema per la sinistra non è più di navigargli contro, ma di impedire che qualcuno lo intercetti prima che gonfi le sue vele, ora che soffia dalla parte giusta. Questo - del cambiamento della corrente della storia - dovrebbe diventare un nostro grande tema: soprattutto di fronte alle giovani generazioni, che vogliono sentirsi parlare di futuro. Ma dovremmo esserne davvero capaci, e avere la forza di proporre un’ idea di Italia all’ altezza delle prove che ci aspettano. C’ è tuttavia molto di più. Più etica va benissimo. E però, quale etica? E qui le cose si complicano. Noi diciamo: non un’ etica "laicista", ma che sappia trovare il divino nell’ accrescersi infinito delle facoltà umane, e non nella sacralità della natura come vincolo e come barriera. Un’ etica della trasformazione e non della conservazione; dell’ emancipazione e non della minorità eterna della specie umana; che non rifiuti l’ aumento illimitato della potenza della tecnica, ma ne determini gli obiettivi; che non consideri come eterno nessun assetto biologico o sociale, ma accetti di vederli tutti come figure del mutamento e della transizione; che cerchi le sue leggi non nella natura, ma nella ragione delle donne e degli uomini della nostra specie; che assuma l’ esistenza di valori non negoziabili, ma solo in quanto anch’ essi storicamente determinati: assoluti non nel senso della loro trascendenza, ma in quello della loro indisponibilità e immodificabilità nella situazione data; che non escluda mai la tecnica dalla vita, ma si limiti a decidere quanta parte della tecnica debba incontrare la vita senza passare dal mercato. E invece il manifesto di Giulio Tremonti mi sembra vada in tutt’ altra direzione. Ed è chiaro perché: egli ha in mente un disegno culturale ambizioso e strategico. Saldare il progetto egemonico della nuova destra non più liberista a quello perseguito dalla Chiesa cattolica (o da una parte di essa) nel nostro Paese. Insomma, rifare in qualche modo la Dc. Ed è per questo che la sua etica (per quel tanto che viene da lui precisata) tende a tingersi di tonalità antilluministe, e la sua critica al "mercatismo" e alla globalizzazione tende a confondersi - proprio come accade alla dottrina sociale della Chiesa - con una critica diretta alla modernità e alle sue prospettive (non vorrei sovrainterpretare, ma forse è proprio questo - il giudizio sulla nostra modernità - quello che, al fondo, non è piaciuto di Tremonti a Mario Draghi, stando alle indicazioni del Foglio). Nello stesso giorno in cui Tremonti parlava a Milano, il cardinale Bagnasco teneva a Roma un altro importante discorso, in un’ altra università, dedicato al futuro della Chiesa italiana. Non c’ è nessuna particolare sintonia tematica fra i due testi. E tuttavia confesso una preoccupazione, come posso dire, di clima intellettuale. C’ è un’ antica tentazione sempre ricorrente nei momenti critici della storia d’ Italia: quella di arroccarsi, di doversi difendere dalla modernità, mettendo in qualche modo la parrocchia al posto dello Stato (debole o inesistente), e salvarsi così. Ricordiamocelo tutti - noi, la destra, la Chiesa stessa: non è più tempo di questi scambi e di queste paure.