Sergio Romano, Corriere della Sera 25/11/2008 (© Newsweek), 25 novembre 2008
Il ministro Brunetta ha affermato (fra il serio e il faceto?) di essere un socialista dentro Forza Italia
Il ministro Brunetta ha affermato (fra il serio e il faceto?) di essere un socialista dentro Forza Italia. Dopo la prima sorpresa (che ci farà mai un socialista, che in quanto tale non può che essere di «sinistra» in un partito di centro-destra?) m’è venuto un dubbio, sul quale mi piacerebbe conoscere la sua opinione: ma Forza Italia da che parte dello schieramento politico si colloca? In effetti si definisce liberale, ma da liberale non si comporta (basti vedere il caso Alitalia), né viene considerata (a Strasburgo nel gruppo liberale siede una parte dell’opposizione, non della maggioranza di governo). E, per di più, come lo stesso Brunetta candidamente riconosce, ha al proprio interno una varietà di anime che rendono impossibile tentare di individuarne la collocazione: sbaglio o fra Martino e Brunetta, passando per Formigoni e Dell’Utri, ci sono più differenze di quante non ve ne siano fra Bertinotti e Rosy Bindi? Sarà per questo che, caso unico fra i Paesi occidentali, abbiamo un Primo ministro che è sì leader del partito di maggioranza relativa, ma che a questa «funzione» di leader non è mai stato eletto? Non è la mancata elezione che mi preoccupa (immagino che se ci fossero elezioni otterrebbe percentuali alla bulgara); ma il fatto è che l’elezione del leader di un partito è normalmente accompagnata da dibattiti che ne definiscono la linea politica, la collocazione di un partito. In un partito, quale è stato Forza Italia sino agli scorsi giorni, niente elezioni, niente dibattito, niente linea politica. Dunque, si potrebbe affermare che l’Italia è stata governata da un Partito «indefinibile». Che cosa ne pensa? Marco Pisano marcolone2@hotmail.com Caro Pisano, P rima di rispondere alla sua domanda sulla natura di Forza Italia osservo che Brunetta non è il solo socialista di Berlusconi. Nel suo governo vi sono almeno altri due ministri importanti (Sacconi e Tremonti) che hanno un passato formalmente o informalmente socialista. Non dovremmo chiederci, quindi, che cosa ci stiano a fare questi socialisti nel governo e nel partito di Berlusconi. Dovremmo chiederci piuttosto se fossero davvero socialisti negli anni in cui appartenevano, in modo più o meno esplicito, all’area del socialismo craxiano. Se adottassi un criterio strettamente ideologico e misurassi il loro socialismo sulla base degli schemi e delle lealtà che prevalevano nel Psi sino alla prima metà degli anni Settanta, dovrei rispondere no. Ma commetterei un errore. I socialisti di cui stiamo parlando erano riformisti, anticomunisti, stanchi dell’egemonia democristiana e del dogmatismo massimalista di molto socialismo italiano, convinti che l’Italia avesse bisogno di una forte dose di modernizzazione e che il Psi, se profondamente rinnovato, potesse diventare il motore del rinnovamento nazionale. Si avvicinarono a Craxi perché credettero che il leader socialista avesse questi obiettivi e che l’Italia, con lui a Palazzo Chigi, avrebbe potuto fare ciò che altri Paesi europei stavano facendo in quegli anni. Quando le inchieste della procura di Milano cancellarono il Psi dalla carta politica italiana, qualcuno, mosso da una combinazione di ambizioni personali e convinzioni ideali, pensò che l’eredità anticomunista e riformista di Craxi potesse venire raccolta da Berlusconi e che la modernizzazione dell’Italia potesse avvenire grazie alla sua apparizione sulla scena politica italiana. Vengo ora alla sua domanda. Dovrei chiederle, prima di rispondere, che cosa lei intenda con la parola «liberale », una etichetta che in questi ultimi anni, tanto per fare qualche esempio, è servita a coprire la xenofobia di Haider, i digiuni di Pannella, l’ostilità di Antonio Martino contro l’euro, la politica economica di Margaret Thatcher e persino la faticosa svolta riformista dei Democratici di sinistra negli anni Novanta. Tutti liberali? Preferisco osservare che per almeno un decennio, dopo la fine della guerra fredda, «liberale» fu la parola virtuosa di cui molti, a destra e a sinistra, si impadronirono per riciclarsi e presentarsi al Paese come nuovi. Forza Italia non è mai stato un partito liberale. Ma non sono liberali nemmeno altri partiti e leader che si sono serviti di questa etichetta negli ultimi anni. A me sembra, del resto, che Forza Italia non sia stato un partito, ma un movimento post-ideologico, nato soprattutto per governare e fortemente identificato con la persona che l’ha creato. Aveva qualche idea guida – la modernizzazione del Paese, la costruzione di grandi opere, lo snellimento delle strutture statali, la diminuzione delle imposte – ma era privo di grandi principi e incline a compromessi che potevano intaccare la sua credibilità e la sua efficacia. La coerenza non è mai stata il suo punto forte. Ma lo stesso può dirsi dell’opposizione. Il vero problema, se mai, è l’utilità della distinzione tradizionale fra destra e sinistra. A me sembra che sia ormai una sorta di residuo fossile, utile tutt’al più per distinguere la maggioranza dall’opposizione.