Fareed Zakaria, Corriere della Sera 25/11/2008 (© Newsweek), 25 novembre 2008
Per settimane il mondo ha aspettato ansiosamente di sapere i nomi dei politici che guideranno il prossimo governo americano: i nuovi segretari di Stato e al Tesoro, e il procuratore generale
Per settimane il mondo ha aspettato ansiosamente di sapere i nomi dei politici che guideranno il prossimo governo americano: i nuovi segretari di Stato e al Tesoro, e il procuratore generale. Ma con ogni probabilità, una delle posizioni più critiche nell’amministrazione Obama verrà nominata solo nei prossimi mesi e, quando lo sarà, non riceverà molta attenzione mediatica: l’ambasciatore americano in Cina. Tutti sanno che la Cina è una grande potenza e la rappresentanza diplomatica americana nel Paese riveste un ruolo cruciale. Mai come in questo momento abbiamo bisogno di Pechino. La Cina è la chiave al superamento della crisi economica americana. L’ambasciatore americano a Pechino (con questo termine mi riferisco all’intero staff di funzionari che curano le relazioni) dovrà far capire alla Cina che i suoi interessi coincidono con quelli americani. In caso contrario, la situazione potrebbe prendere una piega drammatica. Da più parti si sostiene che Washington dovrà aumentare la spesa per uscire dalla recessione, evitando che si trasformi in depressione. Gli esperti sia di destra che di sinistra concordano sull’opportunità di ingenti stimoli all’economia, e ribadiscono che per il momento è meglio non pensare al deficit. Ma per finanziare il deficit – che potrebbe arrivare a qualcosa tra 1 e 1,5 trilioni di dollari, ovvero dal 7 all’11 percento del Pil – occorre che qualcuno acquisti il debito americano. E l’unico Paese che ha i soldi per farlo è la Cina. A settembre, Pechino è diventato il più grande creditore straniero dell’America, superando il Giappone, che non acquista più considerevoli quote di titoli del Tesoro americano. Anzi, benché il ministero del Tesoro non tenga un registro dei possessori dei titoli americani, è virtualmente certo che il governo della Repubblica popolare cinese, proprietario del 10 % dell’intero debito pubblico americano, è ormai diventato il più grande creditore di Washington, interno o estero. La Cina è il banchiere dell’America. Ma i cinesi continueranno a svolgere questo ruolo? Sicuramente hanno i mezzi per farlo. Le riserve cinesi di valuta estera toccano quasi i 2 trilioni di dollari (in confronto ai miseri 73 miliardi del governo americano). Tuttavia il governo cinese vede con preoccupazione il rapido rallentamento dell’economia, man mano che diminuiscono le esportazioni cinesi verso l’America e l’Europa, e spera di ravvivare la crescita interna (accontentandosi di un 6-7%, rispetto al 12% dello scorso anno), mettendo in campo un poderoso programma di misure economiche. L’intervento di spesa annunciato da Pechino qualche settimana fa ammonterebbe a quasi 600 miliardi di dollari (parte dei quali impiegati in progetti in corso), che rappresentano il 15% del Pil cinese. Nell’obiettivo di mantenere alta l’occupazione e prevenire scioperi e proteste, si capisce che Pechino non esiterà, se necessario, ad aggiungere altre decine di miliardi al pacchetto. Al contempo, Washington deve disperatamente convincere Pechino a continuare ad acquistare titoli americani, in modo che il governo statunitense possa incrementare il deficit per lanciare il proprio programma di incentivi all’economia. In realtà, stiamo chiedendo alla Cina di finanziare simultaneamente le due più grandi economie della storia, la loro e la nostra. I cinesi faranno di tutto per venirci incontro, perché è nel loro stesso interesse rinvigorire l’economia americana. Ma naturalmente la loro priorità sarà quella di rilanciare la propria crescita. «Si dice spesso che Cina e America sono interdipendenti », commenta Joseph Stiglitz, vincitore del Nobel dell’economia nel 2001. «Ma ciò non corrisponde più al vero. La Cina ha davanti due strade per assicurare la sua crescita economica: la prima, finanziare i consumatori americani; la seconda, sostenere i suoi cittadini, che sono sempre di più in grado di consumare in quantità tali da stimolare la crescita economica interna. La Cina ha davanti una scelta, noi no. In questo momento non esiste altro Paese capace di finanziare il deficit americano». Nel suo ultimo libro, L’ascesa del denaro, Niall Ferguson descrive la nascita di una nuova nazione dopo la Guerra fredda, la «Cimerica», che rappresenta un decimo della superficie terrestre, un quarto della popolazione mondiale e la metà della crescita economica globale degli ultimi otto anni. «Per un certo periodo è sembrato un matrimonio ideale», scrive Ferguson. «I cimericani d’oriente risparmiavano, mentre i cimericani d’occidente spendevano ». Gli orientali puntavano alla crescita, gli occidentali si godevano una bassa inflazione e bassi tassi d’interesse. Come Stiglitz, anche Ferguson è convinto che la Cina può scegliere tra varie opzioni. «Certamente i cinesi vorranno sostenere il consumo americano, ma se capiscono che non funziona, hanno a disposizione il piano B», mi ha spiegato la scorsa settimana. Il piano B prevede di stimolare il consumo interno cinese grazie alla spesa del governo e alle agevolazioni al credito per i propri cittadini. «La grande domanda oggi – prosegue Ferguson – è se la crisi saprà consolidare la Cimerica, oppure la distruggerà. Nel primo caso, già si intravede la strada per uscire dalla crisi. Nel secondo, possiamo dire addio alla globalizzazione». Negli ultimi anni, l’ambasciata più importante e difficile è stata indubbiamente quella di Bagdad. Nel prossimo decennio, l’incarico più cruciale e spinoso potrebbe essere a Pechino.