Eugenio Scalfari, la Repubblica 22/11/2008, 22 novembre 2008
I GOVERNI
aspettano, nessuno ha voglia di fare la prima mossa. Neppure l´America, messa in angolo dalla troppo lunga transizione tra il presidente uscente e quello già eletto ma non ancora governante. Neppure l´Europa dove la Banca centrale promette un ribasso del tasso di interesse e la Commissione di Bruxelles studia un piano di intervento sulle infrastrutture che è ancora sotto limatura e in mancanza del quale i governi nazionali rinviano le decisioni di loro competenza.
I governi dunque aspettano ma la crisi dell´economia no. Le Borse continuano a crollare, le aziende a licenziare, le famiglie a stringere la cinta. Il Natale non si preannuncia allegro per nessuno; forse, una volta tanto, sarà una festa religiosa per i credenti e un momento di riflessione e di consuntivo morale per tutti.
Questa domenica vorrei fare anche un po´ di chiarezza sul programma di sostegno dei redditi e delle imprese che il nostro ministro dell´Economia sta preparando e che, salvo ulteriori rinvii, dovrebbe essere varato dal Consiglio dei ministri il 28 prossimo. Ma vorrei anche esprimere qualche opinione sulla politica italiana e in particolare sul centrosinistra. Di solito evito questo tema, sa troppo di politichese, un genere che mi appassionava in passato ma che ha perso da tempo lo smalto che aveva. Ci sono tuttavia momenti nei quali la politica evoca di nuovo una scelta morale. Stiamo vivendo uno di quei momenti nonostante la diffusa mediocrità degli apparati e delle oligarchie. Perciò mi sembra doveroso parlare anche di questo tema.
Me ne offre lo spunto la conversione del presidente del Consiglio dalla strategia di aggressività nei confronti di chiunque metta in discussione le sue decisioni ad un´improvvisa apertura verso i sindacati, verso il movimento degli studenti e verso quei settori e quei ceti che, sotto l´impatto della crisi economica, cominciano a risvegliarsi dall´ipnosi e a chiedere non più annunci ma fatti concreti.
Le aperture del presidente del Consiglio sono ancora molto caute e contraddittorie, contrastano con la sua natura che lo spinge ad occupare interamente la scena senza condividerla con nessuno, alleato o avversario che sia. Ma la forza dei fatti e le necessità che ne derivano lo inducono a tentare un percorso diverso. Fino a che punto diverso?
L´esperienza ci ha insegnato che le aperture berlusconiane hanno un arco di oscillazione molto limitato. La sola opposizione accettabile è per lui un´opposizione al guinzaglio che si accontenti di qualche briciola e di qualche pacca sulle spalle, che rida alle sue barzellette, che si contenti di essere invitata a cena e trattata con buone maniere. Carota sì, purché si intraveda che il bastone è sempre lì, poggiato in un angolo a portata di mano.
Certo se quella parte di Italia che lo sente incompatibile si innamorasse improvvisamente di lui le cose cambierebbero molto. Per ora l´innamoramento è avvenuto per pochi e non sempre, anzi quasi mai, per conversione sulla via di Damasco ma piuttosto con motivazioni di tornaconto personale. Non è questo che vuole il sire di Arcore e di Palazzo Grazioli. Perciò quel momento magico tarda a venire. Per fortuna, perché quello sì, sarebbe la fine della democrazia italiana.
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Intanto il Partito democratico versa in serie trambasce. Le lacerazioni interne non sono una novità e del resto esistono in tutti i partiti e in tutto il mondo. La sinistra però ne è affetta molto più della destra perché storicamente la sua natura è ideologica. Infatti profonde lacerazioni vi sono nella Spd tedesca, nel Partito socialista francese, tra i laburisti inglesi. E´ accaduto perfino in Usa durante la campagna elettorale tra Obama e l´ala clintoniana del partito.
Qui da noi le lacerazioni del Pd viaggiavano sotto traccia fin da quando Veltroni fu chiamato alla "leadership" nell´autunno del 2007 quando il governo Prodi e la legislatura erano oramai alla fine. La sua ascesa alla segreteria fu voluta dai due gruppi dirigenti dei Ds e della Margherita, cioè dall´Ulivo che si trasformò rapidamente in un partito nuovo e affrontò pochi mesi dopo le elezioni politiche guidato dall´ex sindaco di Roma, confermato nel ruolo di leader da tre milioni e mezzo di votanti alle primarie del partito.
Se miracolosamente avesse vinto le elezioni la compattezza del nuovo partito sarebbe stata garantita dall´interesse di tutti cementato dal potere e dall´assenza di contrasti politici. La cornice generale era infatti interamente condivisa: un partito aperto e innovatore che aveva unificato il riformismo laico e quello cristiano, uscito dalle ceneri dell´alleanza con la sinistra estrema che aveva segato il governo Prodi.
La sconfitta elettorale era nel conto ma mancando il cemento del potere emersero le lacerazioni. Non c´era un contrasto nella visione del bene comune e neppure dei mezzi da impiegare per realizzare quell´obiettivo; c´era però materia per uno scontro di potere all´interno del partito. Il Pd aveva difatti incassato un risultato elettorale del 33 per cento dei voti espressi, un partito riformista che aveva ottenuto il consenso di un terzo del corpo elettorale non si era mai visto nella storia italiana, né in tempo di repubblica, né in tempo di monarchia.
I contrasti rimasero tuttavia sotto traccia, ma col passare dei mesi e con la stupefacente luna di miele tra Berlusconi e la pubblica opinione, diventarono sempre più evidenti, nacquero fondazioni che sotto l´apparenza culturale si atteggiavano a vere e proprie correnti. In particolare quella guidata da D´Alema che si dette addirittura un assetto territoriale.
L´obiettivo sembrò esser quello di logorare la leadership veltroniana anche a costo di danneggiare la compattezza del partito ancora in fase organizzativa.
Infine, proprio in queste ultime settimane, arrivarono due mosse strategiche di Berlusconi: la rottura con la Cgil e l´elezione del senatore Villari alla guida della Commissione di vigilanza sulla Rai con i voti della destra e contro il candidato dell´opposizione.
Su questa micidiale doppietta lo scontro interno al Pd è esploso in piena luce sotto l´antica e mai risolta rivalità tra Veltroni e D´Alema.
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Con tutto quello che sta accadendo nel mondo uno scontro di cortile è quanto di più mediocre e provinciale si possa immaginare. Frustrante per gli elettori e i simpatizzanti di un partito ancora allo stato nascente ma con un seguito nient´affatto trascurabile come ha dimostrato qualche settimana fa l´imponente raduno del Circo Massimo, poi il rilancio nei sondaggi che vedono il Pd di nuovo al 32 per cento, poi la vittoria elettorale nella provincia di Trento, infine l´inizio d´uno smottamento sociale del consenso berlusconiano.
D´Alema, nel suo ruolo di sfidante, nega sia pure a fior di labbro che lo scontro vi sia, ma i fatti lo smentiscono. Parlano per lui i suoi luogotenenti e i media da lui in qualche modo influenzati. L´attacco a Veltroni è il punto di convergenza di tutte queste voci. Il testo che traccia con più chiarezza quest´indirizzo politico lo si trova in un articolo di Galli Della Loggia pubblicato di fondo sulla prima pagina del «Corriere della Sera» di martedì scorso, quanto mai rivelatore. L´accusa a Veltroni è motivata dal suo supposto appiattimento su Di Pietro che sarebbe incompatibile con la linea riformista del Pd tradita dal segretario del partito. «Il riformismo ? scrive l´autore ? ha avuto un rigoglioso sviluppo quando ha rifiutato il massimalismo ed è stato invece condannato al declino quando si è confuso con esso».
Sbagliato in tutti e due questi assunti. Il riformismo italiano è sempre stato minoritario e non ha mai raggiunto un terzo del corpo elettorale come è invece avvenuto per il Pd. Quanto all´appiattimento su Di Pietro i fatti smentiscono la tesi di Della Loggia: né la scelta di Orlando a candidato per la Vigilanza Rai può essere considerata una prova a carico e basterebbe a dimostrarlo il fatto che la scelta fu concordata anche con l´Udc di Casini che non può certo essere definita come una formazione politica massimalista.
Al contrario, la corrente dalemiana, in mancanza di un vero dissenso politico cui appoggiarsi, ha compiuto atti e pronunciato dichiarazioni di sistematica denigrazione ai danni del leader del Pd, culminate nell´appoggio palese e ripetuto verso il neoeletto alla Vigilanza Rai: esempio emblematico della strategia della destra e della spregiudicatezza di una corrente interna del centrosinistra.
Queste risse di cortile sono deprimenti, specialmente in una fase di crisi mondiale che vorrebbe un´opposizione compatta e responsabile, non distratta da beghe interne e capace di offrire all´opinione pubblica risposte convincenti e di formulare in Parlamento contributi per la soluzione dei problemi che incombono.
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Quei problemi non sono né potevano essere avviati a soluzione dal G20 svoltosi a Washington pochi giorni fa. Quel «meeting» al quale per la prima volta hanno partecipato alcune delle potenze emergenti come la Cina, l´India, il Brasile, ha avuto un solo risultato storico: ha gettato le basi di una inevitabile redistribuzione del potere mondiale. Anche in termini istituzionali. La prima conseguenza concreta sarà infatti una redistribuzione già allo studio delle quote di partecipazione dei paesi emergenti al Fondo monetario internazionale e agli altri analoghi organismi.
Al di là di questo, peraltro importantissimo, risultato nient´altro è stato né poteva esser deciso in attesa che il nuovo presidente eletto sia insediato alla Casa Bianca il 20 gennaio.
Ma poiché la crisi non aspetta, l´Europa renderà noto un documento programmatico mercoledì prossimo e il governo italiano dal canto suo ne emetterà uno proprio il prossimo venerdì.
Poiché sia l´uno sia l´altro sono già conosciuti nelle loro grandi linee, vediamo di che si tratta.
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Il piano della Commissione europea mobilita 130 miliardi di euro per il 2009, dopo la ratifica dell´Ecofin. Una cifra rispettabile, destinata interamente a costruzione di infrastrutture d´importanza europea e nazionale. Rappresenta la sommatoria dell´1 per cento del Pil dei 27 paesi dell´Unione. Ciascuno di essi mobiliterà risorse per eseguire le opere sul proprio territorio previa notifica alla Commissione che dal canto suo erogherà a supporto risorse proprie per integrare quelle stanziate dai singoli governi. Le risorse della Commissione saranno tratte dal bilancio europeo e poiché il loro ammontare eccederà rispetto alle disponibilità esistenti, i 27 paesi dovranno accrescere di altrettanto le loro contribuzioni all´Unione.
Si tratta dunque, in larga misura, di una complessa partita di giro dall´Unione verso i paesi membri e da questi verso l´Unione che, comunque, dovrà spostare i fondi da alcuni capitoli di spesa ad altri capitoli. Si chiama "raddrizzamento". Ovviamente anche il Parlamento di Strasburgo dovrà dire la sua in proposito.
Se volete il mio parere, definirei questo programma le nozze coi fichi secchi, una mano dà, l´altra mano prende. In napoletano si direbbe "facimmo ammuina".
La Commissione ha anche stabilito che i singoli paesi membri possano diminuire l´Iva (imposta sovranazionale) per alleggerire i rispettivi pesi tributari. Infine ha messo su carta l´autorizzazione a sforare la soglia del 3 per cento di deficit/Pil a condizione che lo sforamento non sia superiore ai sedici mesi e non sia maggiore dell´1 per cento. Questi due provvedimenti hanno una loro reale sostanza e consentiranno politiche anticicliche. Secondo me avrebbero dovuto essere adottati almeno sei mesi fa quando già era evidente l´arrivo della tempesta e così pure la riduzione dei tassi d´interesse da parte della Banca centrale europea, che ancora centellina i ribassi mentre le economie reali sono sconvolte dalla depressione.
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Gli 80 miliardi di euro di Tremonti, come ormai hanno capito tutti, sono uno spottone mediatico. Anche lui come la Commissione brussellese, sposta di qua e sposta di là, preleva risorse già impegnate dall´anno scorso ma non spese, attiva opere pubbliche che avrebbero dovuto essere eseguite dal 2001 o almeno dal giugno 2008 e che giacevano e ancora giacciono nei rispettivi capitoli di copertura o nei fondi d´attesa previsti dalle leggi di bilancio.
Gli 80 miliardi dunque sono spese ritardate o coperture destinate ad altri scopi che ora resteranno scoperti. Tanto per fare un esempio: dieci miliardi erano destinati al Mezzogiorno, sono stati prelevati e saranno usati per opere pubbliche in parte destinate al Mezzogiorno stesso. Semplici movimenti contabili, quasi tutta aria fritta di scritture di giro per ottenere ottimi effetti sui giornali e nei teleschermi. Perciò, cari lettori, non fatevi ingannare dalle apparenze e dalle bugie. Di vero in quelle cifre ci sono soltanto 16 miliardi per infrastrutture che il Cipe doveva indicare tre giorni fa ma ha rinviato perché aspetta di conoscere l´ammuina di Bruxelles per modellarvi sopra la propria
Infine 4 o 5 miliardi per le famiglie, un miliardo per rifinanziare la Cassa integrazione e dare qualche soldo ai precari licenziati. Per le imprese l´Iva da versare al momento dell´incasso (e questo è un buon provvedimento) e il rinvio degli acconti di fine anno. Nessuno sconto sull´Irpef. Detassazione degli straordinari (non serve a niente perché in recessione non ci sono straordinari). Nuovo patto con le banche per migliorare i mutui a tasso fisso (il patto precedente tanto strombazzato non ha avuto alcuno effetto). Sottoscrizione governativa di bond bancari per rafforzarne i patrimoni. Chiedendo in contropartita aperture di credito alle piccole e medie imprese. Questo è quanto. Tarallucci e vino. Infatti piovono critiche da Cgil Cisl e Uil e, nientemeno, anche da Confindustria.
Intanto il petrolio è sceso fino a 49 dollari al barile, il credito diminuisce, i canali interbancari restano intasati, la Citigroup licenzia 52mila dipendenti, lunedì dovremo seguire con estrema attenzione l´andamento di Wall Street, Detroit è un dramma, la Opel tedesco-americana pure. A Torino la Fiat non ride.
La ministra Carfagna ad "Invasioni barbariche" (mai titolo le fu più adatto) si è paragonata a Reagan ed anche a Obama. Berlusconi si è commosso perché Forza Italia è stata sciolta per far nascere nel 2009 il nuovo Partito della Libertà. Lo scioglimento è stato approvato con un dibattito di venti minuti. Berlusconi ha nell´occasione rimproverato la Rai perché «parla solo di crisi e il mio messaggio non riesce a passare».
Questo è quanto ci passa il nostro convento. Poiché non c´è di meglio accontentiamoci. Ma per quanto?