???, La Stampa 22/11/2008, 22 novembre 2008
Un’età più bassa alla pensione per le donne costituisce non un privilegio, ma una forma di discriminazione che si aggiunge a quelle che le donne devono già subire sul mercato del lavoro per essere, appunto, donne e le maggiori responsabili del lavoro famigliare
Un’età più bassa alla pensione per le donne costituisce non un privilegio, ma una forma di discriminazione che si aggiunge a quelle che le donne devono già subire sul mercato del lavoro per essere, appunto, donne e le maggiori responsabili del lavoro famigliare. quanto stabilito da una sentenza dalla Corte di Giustizia Europea che ha condannato l’Italia per questo. La pronuncia della Corte riguarda per ora solo il settore pubblico, in quanto la causa a questo si riferiva. Ma il suo effetto inevitabilmente si allargherà anche al settore privato, a meno che non si voglia arrivare a una seconda condanna. In particolare la Corte ha respinto l’argomentazione italiana secondo la quale la fissazione di un’età diversa a seconda del sesso è giustificata dall’obiettivo di eliminare discriminazioni a danno delle donne. Andare in pensione prima, ritengono i giudici lussemburghesi, «non compensa gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici donne e non le aiuta nella loro vita professionale né pone rimedio ai problemi che possono incontrare nella loro vita professionale». In effetti è davvero paradossale il consenso che in Italia si trova - nei diversi governi che si sono succeduti, nei sindacati, ma anche tra molte femministe e tra le cosiddette persone comuni - sull’idea che un’età della pensione più bassa compensi non solo discriminazioni nel mercato del lavoro, ma soprattutto il fatto che le donne si fanno carico della maggior parte del lavoro famigliare e di cura. Andare in pensione prima significa spesso andare in pensione con una minore anzianità contributiva. A causa di ciò, viene ulteriormente compressa una pensione già mediamente ridotta, rispetto a quella dei coetanei maschi, a causa di carriere più corte, quindi salari più bassi, dovute non solo alle discriminazioni sul mercato del lavoro, ma ad una divisione del lavoro familiare fortemente asimmetrica e con pochi sostegni da parte dei servizi. Non a caso l’incidenza della povertà tra le donne anziane che vivono sole è più alta della media. Per non parlare del fatto che spesso la motivazione implicita dell’età più bassa alla pensione non è una compensazione tardiva della discriminazione e del doppio lavoro - remunerato e non - fatto da molte donne per buona parte della vita adulta, bensì la necessità di avere persone disponibili a soddisfare le necessità di cura lasciate scoperte dai servizi, appunto, mancanti: come nonne di nipotini i cui genitori sono entrambi occupati, come figlie e nuore di grandi anziani fragili, come mogli di uomini spesso più vecchi di loro. Ovvero, in cambio di una pensione più bassa, ancorché fruita per un periodo mediamente più lungo, anche da anziane ci si aspetta da loro che continuino a prestare cura. Meglio, molto meglio, equiparare l’età alla pensione, ma anche i salari e le opportunità di carriera. E contestualmente fare due operazioni sul piano del lavoro di cura: aumentare i servizi e riconoscere l’attività di cura prestata per famigliari non autosufficienti per età o grave invalidità. Oggi per ogni figlio vengono riconosciuti tre mesi di contributi figurativi: un riconoscimento irrisorio (in Germania un figlio «vale» un anno di contributi), tanto più che i mesi di congedo genitoriale non sono coperti da contributi oltre ad essere compensati pochissimo. E nulla viene riconosciuto a chi si occupa intensivamente di un invalido. Anzi Brunetta vuole anche togliere i tre giorni di congedo al mese attualmente disponibili. Riconoscere tempo, denaro e contributi a chi ne ha bisogno perché - donna o uomo - svolge un’attività preziosa sembra più efficiente e più equo che regalare tempo a basso prezzo ex post e in modo generico alle donne in quanto donne. Non si parlerebbe più di «donne» e «uomini», ma di chi fa anche attività di cura e chi no.