Luigi Grassia, La Stampa 22/11/2008, 22 novembre 2008
In India esplode un fenomeno inimmaginabile fino a pochissimo tempo fa: decine di migliaia di americani e di europei occidentali, in fuga dai loro Paesi altamente sviluppati ma ora in grave crisi, vanno a cercare lavoro nel Subcontinente in pieno boom economico
In India esplode un fenomeno inimmaginabile fino a pochissimo tempo fa: decine di migliaia di americani e di europei occidentali, in fuga dai loro Paesi altamente sviluppati ma ora in grave crisi, vanno a cercare lavoro nel Subcontinente in pieno boom economico. Non si tratta dei soliti dipendenti di multinazionali spediti in periferia a dirigere una filiale (questi ci sono sempre stati) ma di lavoratori che si muovono alla spicciolata, per conto loro, offrendosi alle imprese indiane per un’assunzione. I nativi di Usa e Ue che lavorano in India sono già 50 mila, e fra quest’anno e il prossimo raddoppieranno. Centomila persone non sono una cifra enorme, in un Paese che da tempo ha superato il miliardo di abitanti, ma il fatto è così notevole in sé, e manifesta una tale dinamica di crescita, che gli ambienti economici indiani hanno dovuto per forza notarlo. I«cacciatori di teste» di Mumbai/Bombay (la capitale economica dell’India) dicono di vedere sempre più spesso curricula di ingegneri, tecnici delle comunicazioni ed esperti di finanza americani ed europei, decisi a venire qui per fare esperienza e guadagnare bene in un Paese che cresce. Nel 2008, sotto l’urto della crisi, i candidati statunitensi a lavorare in India sono addirittura triplicati. Molti di quei signori americani licenziati, che vediamo al telegiornale mentre escono dignitosamente, per l’ultima volta, dai loro uffici, tenendo in mano scatoloni pieni di oggetti personali, stanno già cercando nel Subcontinente il loro personale «passaggio in India» (in stile E.M. Forster) che è sempre meglio che bighellonare da disoccupati in patria dicendo in giro «faccio cose, vedo gente» (alla Nanni Moretti). Senz’altro l’India aiuta gli stranieri anglofoni ad acclimatarsi grazie alla lingua inglese diffusa presso la massa della popolazione (sia pure con un accento problematico) e a una dotazione di strutture per la vita quotidiana che è più che soddisfacente (almeno per le persone danarose). Dal punto di vista di un americano o un inglese, emigrare in India è un po’ più esotico e un po’ più scomodo che emigrare in Australia, ma non tanto di più. E anche per un tedesco o un italiano, perché no? Ovviamente le posizioni da occupare sono solo quelle altamente qualificate; i lavori di manovalanza e quelli di medio rango non offrono nicchie vuote in India. Gli stipendi che spuntano i tecnici occidentali sono così così, in assoluto, ma hanno un enorme potere di acquisto locale; insomma in India ci si vive da nababbi. Ad ogni modo non è solo la crisi a spingere gli americani e gli europei a cercare lavoro da queste parti, ma anche il sincero interesse per un Paese che offre opportunità di crescita professionale davvero valide; la controprova è che nelle università indiane ci sono ormai migliaia di domande di studenti occidentali desiderosi non solo di studiare l’India tradizionale, la filosofia Vedanta, il buddhismo eccetera, ma anche tecnologia, scienza, economia. A lungo termine l’India può rivelarsi una scommessa economica persino migliore di quella della Cina. In Cina c’è tanta manifattura, ma in sostanza c’è solo quello. Invece l’India ha anche un forte settore dei servizi, che spaziano dalla scrittura di software ai call center e alla «esternalizzazione» a lunghissimo raggio di servizi amministrativi di compagnie occidentali. Quindi, rispetto alla Cina il Subcontinente ha un’economia più articolata, più globalizzata e più in grado di assorbire gli choc. Inoltre dispone di una democrazia non perfetta ma che funziona ormai da 60 anni, mentre la futura transizione democratica è una grossa incognita per la Cina. Infine l’India ha un sistema legale di tipo occidentale, e anche questo ha il suo peso: dal punto di vista delle imprese europee e americane, significa trovarcisi (entro certi limiti) come a casa propria, e ad esempio il gruppo francese Alstom ha appena aperto a Vadodara, nel Gurjat indiano, il suo primo centro di ricerca al di fuori dell’Europa, motivando la scelta col fatto che «qui la proprietà intellettuale viene rispettata»; mentre dal punto di vista personale, un sistema legale di ispirazione occidentale agevola gli americani e gli europei che vogliono andare a vivere in India, perché li libera dal timore di controlli di polizia asfissianti e di altre cose consimili che intossicano la vita. Non vanno nascosti alcuni lati negativi della permanenza da queste parti. Il clima può non piacere a tutti: per la maggior parte dell’anno è troppo caldo e troppo umido perché un occidentale medio lo trovi gradevole; in caso di trasferimento semi-definitivo bisogna tenerne conto. Il cibo richiede un lungo adattamento: i medici dicono che ci vogliono quatto o cinque mesi perché l’intestino di un europeo o un americano reagiscano agli alimenti e all’acqua locali allo stesso modo delle viscere di un indiano. E c’è anche un problema di malattie endemiche: malaria, dengue, colera, tubercolosi e altri morbi non sono ancora completamente debellati nemmeno nelle grandi città. Non bisogna esagerare con le preoccupazioni, però l’India non è un Paese per ipocondriaci. Tirate le somme, 100 mila occidentali già dicono: si può fare. Stampa Articolo