Note: [1] c. nad., la Repubblica 20/11, Domenico Quirico, La Stampa 18/11; [2] Fausto Biloslavo, il Giornale 19/11; [3] Emilio Manfredi, Lཿespresso 11/9; [4] Fabio Pozzo, La Stampa 22/11; [5] Avvenire, 10/11; [6] Domenico Quirico, La Stampa 18/11; [7] And, 22 novembre 2008
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 24 NOVEMBRE 2008
«La gente si accorgerà davvero di quale problema sia la pirateria quando non troverà nei negozi i videogiochi da regalare per Natale» (Sam Dawson, Federazione internazionale dei lavoratori del trasporto). Per gli analisti il sequestro della superpetroliera saudita Sirius Star (imbarca due milioni di barili di greggio, l’equivalente del consumo giornaliero della Francia, valore oltre i 100 milioni di dollari) avvenuto il 15 novembre 450 miglia a sud-est di Mombasa (Kenya), è un punto di svolta: o la comunità internazionale prenderà delle contromisure, oppure per il trasporto via mare sarà crisi globale. [1] Samuel Ciscuk, analista del Medio Oriente: «Teoricamente tutti i trasporti di greggio via mare dal Golfo Persico all’Occidente sono nel raggio d’azione di possibili attacchi dei pirati». [2]
Il 90 per cento del commercio mondiale avviene per mare (oltre 10 milioni di container l’anno). [3] Il Golfo di Aden è un’area strategica: qui, tra Yemen e Somalia, c’è il canale di accesso (e di uscita) a Suez, la principale via di collegamento tra l’Oceano Indiano e il Mediterraneo, vale a dire tra Est e Ovest, tra l’Asia e l’Europa. Fenomeni di pirateria ci sono sempre stati, ma non avevano mai raggiunto il livello degli ultimi nove mesi: il centro anti-pirati dell’International Maritime Bureau ha registrato 107 attacchi (di cui 57 falliti) e 27 sequestri di navi. [4] Il 2 maggio i Lloyd’s di Londra hanno riclassificato il Golfo come «zona di guerra», paragonabile, per quel che riguarda i premi assicurativi e i rischi, all’Iraq. [5]
Il giro d’affari annuo dei pirati somali ammonta secondo le stime più prudenti a 50 milioni di dollari (dato riferito al 2008 da fonti ufficiali locali). Il New York Times: «In Somalia il crimine paga, e sembra al momento l’unica industria che funzioni». La maggior parte dei pirati è giovane, dai 20 ai 35 anni. Rappresentano la classe dirigente, l’élite di un Paese in cui oltre metà della popolazione soffre la fame. [6] Sino a qualche anno fa era la Nigeria il paese africano a maggior rischio pirati, vista la forte presenza di petroliere cariche di greggio in uscita dal Delta del fiume Niger. Sulle rotte che attraversano il Golfo di Aden la pirateria si limitava alle navi da pesca. Da tre anni a questa parte il fenomeno è diventato allarmante. [3]
Le prime prede furono le navi del Programma alimentare mondiale, poi i pirati somali hanno deciso di diversificare. [7] Noel Chong, direttore del Centro sulla pirateria, dice che nel mare somalo non c’è autorità in grado di fare rispettare la legge. « un ottimo business con rischi minimi. Di fatto, quell’area è diventata il nuovo paradiso dei bucanieri». La Somalia non ha un governo centrale effettivo dal 1991, da allora le fazioni si danno battaglia per il potere in una guerra civile a tutto campo. Il governo federale di transizione (Tfg), è riuscito a insediarsi solo nel gennaio del 2007. Dal punto di vista degli abbordaggi, non è stato un bene: durante i sei mesi in cui le Corti islamiche avevano dominato la Somalia meridionale, il controllo dei mari era stato pressoché totale. Sconfitti gli islamisti, gli attacchi alle navi sono rapidamente ripresi. [3]
Oggi il centro delle attività criminali si trova nella regione semi-autonoma del Puntland. L’organizzazione più potente è chiamata Marines Somali, o Difensori delle acque territoriali somale. [3] Questi pirati fanno base nel porto di Eyl: sorto nel 1997 vicino ad un villaggio di pescatori, sfama adesso duemila persone. Nella baia sono alla fonda 12 navi, centinaia di marinai di ogni nazione sono tenuti in ostaggio aspettando che qualcuno paghi per la loro libertà (le trattative durano in media 1-2 settimane). Le vecchie case dei pescatori sono state trasformate in locande, le donne cucinano, anziani e ragazzini fanno la guardia, i giovani sono arruolati nelle squadre di assalto (un centinaio). [8]
In Somalia opera una consorteria di predoni del mare strutturata come un vero «cartello di clan». [9] Per ogni nave restituita i pirati incassano 1-2 milioni di dollari (per la Sirius Star è stato chiesto un riscatto record di 25 milioni). In genere i corsari vogliono i contanti a bordo: stando ad alcune testimonianze, hanno macchinette conta-banconote e dispositivi per verificare che non si tratti di denaro falso. Il 30% del bottino va agli equipaggi, il 20% ai capi, un’identica percentuale serve per finanziare ulteriori spedizioni e per foraggiare le autorità locali, il 10% va alla popolazione. Con una tale liquidità le gang si rifanno la casa, comprano la jeep, prendono moglie, sperperano nei bordelli. [10]
I capi pensano a reinvestire. La prima possibilità prevede che affidino i dollari a complici somali presenti in Nord America, nel Golfo Persico, in Scandinavia, che li ricicleranno in attività legali. Una seconda opzione comporta l’uso dei soldi direttamente in Somalia: fonti di intelligence sostengono che molte bande comprano il khat, un’erba dagli effetti narcotici popolare in tutto il Corno d’Africa (ha acquirenti anche in Europa). Un altro possibile ”mercato” è quello del carbone da legna diretto verso gli Emirati Arabi e gli altri paesi che si affacciano sul Golfo: viene pagato bene, c’è una forte domanda, alle bande somale tocca procurarlo e farlo arrivare. Chi vuole rischiare di più ricicla trafficando in armi e clandestini. [10]
«Ora basta! Costerà di più, le merci arriveranno in ritardo e i clienti sbufferanno ma la pelle bisogna salvarla». Sono parole del direttore generale di Odfjell, un grande armatore norvegese che ha deciso di far tornare le sue navi sulla rotta scoperta nel 1498 dal navigatore portoghese Vasco de Gama, col passaggio per il Capo di Buona Speranza. [11] La compagnia marittima danese Moeller Maersk, una delle più grandi al mondo, è stata la prima a prendere la stessa decisione. La prossima potrebbe essere Frontline Shipping, il più grande gruppo del mondo per il trasporto di greggio. Chi ci rimette è il consumatore: la circumnavigazione dell’Africa allunga la durata del viaggio di due-tre settimane: una petroliera media brucia 50 mila tonnellate di bunker al giorno, al costo di 500-700 dollari a tonnellata fanno 25-35 mila dollari. Moltiplicato per venti giorni in più di viaggio fanno 500-700 mila dollari. [4]
Detto che la Sirius Star aveva scelto di passare per il Capo di Buona Speranza ma è stata ugualmente intercettata dai pirati spintisi per 450 miglia a Sudest, la scelta di Oldfjell e Maersk non può essere seguita dagli armatori che devono necessariamente attraccare in determinati porti. In questo caso diventa fondamentale la copertura assicurativa. Una polizza che copra da ogni rischio, compresa appunto la pirateria, costa dai 2000 ai 50mila dollari al giorno, ma per i tre giorni di transito nel Golfo di Aden il costo aumenta. [1] Cesare d’Amico presidente della commissione sicurezza di Confitarma: «Si tratta di valori molto variabili, che possono andare, poniamo, dallo 0,075% allo 0,15% del valore assicurato. Su una nave da 50 milioni di dollari, nella prima ipotesi, si possono spendere 22.500 dollari; nella seconda ipotesi si arriva a 44mila». [11]
Secondo la società di consulenze Bgm Risk una nave costretta a passare dal Golfo di Aden deve pagare alle assicurazioni 20mila dollari in più. Considerando che ci sono circa 20 mila passaggi l’anno, fa un surplus di 400 milioni di dollari in dodici mesi. Anche se i pirati incassassero 150 milioni di dollari l’anno (stima del ministro degli Esteri kenyano citata dalla Cnn), viene il dubbio che non siano loro i principali beneficiari delle scorribande sui mari. Tornando ai costi di trasporto, c’è da calcolare l’equipaggio, i cui stipendi coprono circa il 60% dei costi nave (il comandante di una superpetroliera come la ”Sirius Star” prende almeno 14 mila dollari al mese). Roberto Giorgi, presidente di Intermanager, l’associazione internazionale che riunisce i gestori di unità commerciali, dice che per colpa dei pirati «bisogna raddoppiare la paga». [3]
Per correre meno rischi, alcuni armatori fanno viaggiare le loro navi a più di 200 miglia dalla costa e si stanno attrezzando per andare anche più al largo. Stefano Messina, ai vertici di un gruppo (la Ignazio Messina) che muove navi per il Canale di Suez: «Ciò significa perdere giorni di navigazione, anche 4 o 5. Il che ci fa bruciare centinaia di migliaia di dollari a viaggio in più, rispetto a un tragitto costiero». [11] Un’altra opzione valutata dagli spedizionieri è quella di mettere scorte armate a bordo delle navi, ma anche questo fa aumentare il prezzo del trasporto e incide sul prezzo finale dei prodotti. [1] Non bastasse, c’è il problema dei porti che sono toccati dai cargo durante il viaggio: le diverse autorità non permetterebbero l’attracco di navi con a bordo guardie armate. [12]
Come spesso accade, l’emergenza ha creato un nuovo mercato. Diverse società offrono sistemi di protezione che non richiedono l’uso di armi: un apparato che spara onde sonore spaccatimpani è già stato sperimentato con successo, in alternativa si possono usare potenti idranti radiocomandati che investono le barchette d’abbordaggio (tecnica già usata dalle baleniere contro gli eco-guerrieri). Gli iraniani, risparmiando, hanno steso del filo spinato lungo le fiancate. Un’evoluzione più sofisticata ma rischiosa potrebbe essere quella di creare una barriera elettrificata. [12]
Al momento stazionano nel Golfo di Aden navi militari di 15 nazioni. Alcune, comprese le italiane, operano nell’ambito di regole di ingaggio Nato o in base a risoluzioni Onu. In pratica, le navi di pattuglia dovrebbero avere la fortuna di arrivare sul posto nel momento in cui pirati si accingono ad attaccare. Una volta che una nave è in mano ai pirati la decisione su se e come intervenire spetta solo al paese d’origine dell’imbarcazione e all’armatore. [13] Fino a martedì, la linea di condotta internazionale aveva puntato a non fare interventi cruenti, nel timore di un aumento delle violenze. La prima a passare alle maniere forti è stata l’India: la fregata Ins Tabar ha affondato una delle navi-madre che rendono possibili gli attacchi dei pirati anche molto lontano dalla terraferma. [1]
L’Unione Europea lancerà l’8 dicembre una missione anti-pirateria (cinque o sei navi pattuglieranno il Golfo di Aden). [14] Controllare quel tratto di mare con i sistemi attualmente messi in campo è comunque quasi impossibile: servirebbero satelliti, grande lavoro di intelligence, unità studiate per adattarsi alle caratteristiche del nemico, il coordinamento che attualmente non esiste. [15] Continuando così le cose, il Paese che rischia di più è l’Egitto: nel 2007 ha fatturato col Canale di Suez 5,2 miliardi di dollari, terza risorsa di valuta estera del paese dopo il turismo e le rimesse degli emigranti. [4]