Federico Rampini, la Repubblica 22/11/2008, 22 novembre 2008
Gli operai cinesi che lavorano nelle fabbriche di giocattoli. Gli ingegneri della Toyota a Tokyo. I piccoli azionisti della Samsung a Seul
Gli operai cinesi che lavorano nelle fabbriche di giocattoli. Gli ingegneri della Toyota a Tokyo. I piccoli azionisti della Samsung a Seul. Per tutti l´ultima speranza si chiama Black Friday: è il test decisivo per capire come sarà il Natale 2008 sul fronte dei consumi, in America e quindi nel resto del mondo. Nonostante il nome infausto, in passato il Black Friday era tutt´altro che un giorno nero. Quest´anno cade il 28 novembre. E´ il venerdì subito dopo Thanksgiving Day, quando nel lungo ponte festivo tradizionalmente le famiglie americane si precipitano a fare spese. In passato Black Friday coincideva con un´orgia dei consumi pre-natalizi: assalti di massa agli shopping mall, ingorghi nei paraggi dei grandi magazzini, il rito godereccio è sempre stato onorato con entusiasmo. Quest´anno invece i segnali premonitori indicano che sarà un venerdì veramente nero, l´anticipazione di una stagione natalizia depressa, le cui sofferenze si ripercuoteranno in ogni angolo dell´economia globale, dalla classe operaia del Guangdong agli indici di disoccupazione in Italia o in Germania. Il verdetto del consumatore americano è atteso con un´ansia comprensibile. Per anni è stato lui (o lei) il motore infaticabile della crescita planetaria. Anche quando l´economia europea era asfittica, si poteva sempre contare sugli Stati Uniti per continuare a spendere. Il recente benessere conquistato da centinaia di milioni di persone in Cina, India, Vietnam, Brasile, si agganciava all´inesauribile sete di importazioni dell´America. Ma adesso il vento è cambiato davvero: neppure l´ultima offerta di un maxischermo tv ultrapiatto scontatissimo a 900 dollari riesce ad attirare i clienti da Best Buy, la catena di supermercati elettronici americani. Circuit City, il suo principale concorrente, è in liquidazione fallimentare da alcune settimane. I notiziari che arrivano dal fronte della grande distribuzione Usa sono allarmanti. Su Internet imperversa una febbre di ribassi mai vista in passato, nel disperato tentativo di risvegliare i consumatori dal coma profondo. Il commercio elettronico è un indicatore ipersensibile per la velocità con cui reagisce alla congiuntura. Esempio: l´ultimo digital video recorder della Sony, lanciato sul mercato americano in aprile a 1.200 dollari, oggi sul sito Dell. com è in offerta speciale a 899 dollari. E il sito Abe lo vende online a 750 dollari, più la consegna a domicilio gratis. Nonostante questi supersaldi lanciati con largo anticipo rispetto a Thanksgiving e Natale, il commercio elettronico langue: ancora un anno fa cresceva a ritmi del 20%, ora è piatto come un mare in bonaccia. Ancora peggio sta il commercio tradizionale. La catena d´ipermercati K-Mart ha anticipato dal 2 novembre la campagna - saldi che di solito arrivava solo col Black Friday: e quest´anno gli sconti sono folli, dell´ordine del 40% o addirittura 50%. Eppure la gente non reagisce più. The Wall Street Journal avverte che la sindrome paralizzante della deflazione si sta impadronendo della psiche degli americani. Nell´attesa che i prezzi vadano ancora più giù, la spesa si rinvia. Guardando al collasso di grandi magazzini e centri commerciali il quotidiano conclude che i consumatori riscoprono la massima del film «War Games» uscito durante la crisi economica del 1980: «L´unica mossa vincente è non giocare». I sinistri tremori che precedono questo Natale 2008 hanno una dimensione davvero globale. Lo confermano quelle multinazionali il cui mercato non conosce confini. Come la Nokia: ogni quattro cellulari venduti sul pianeta uno ha il marchio finlandese. Proprio la Nokia qualche giorno fa ha dovuto avvertire le Borse che i suoi risultati risentiranno di «una stagione natalizia depressa, a cui seguirà un 2009 di contrazione globale degli acquisti di telefonini». Un messaggio identico gli analisti finanziari lo hanno ricevuto da Vodafone: risultati di fine anno «inferiori alle previsioni», che erano già pessimistiche. Dalla grande gelata dei consumi di fine anno pare che non si salverà nessuno, neppure i super-ricchi e chi è abituato a produrre per loro. A New York non è passato inosservato il flop delle tradizionali aste d´arte autunnali. Sotheby´s e Christie´s hanno fatto i conti pochi giorni fa: l´appuntamento stagionale per miliardari, collezionisti di quadri di impressionisti e grandi autori contemporanei, si è chiuso con vendite complessive di 729 milioni di dollari. E´ meno della metà di un anno fa, quando le stesse aste fruttarono 1,6 miliardi. La ritirata dei ricchi è confermata dalla holding svizzera Compagnie Financière Richemont che controlla marchi del lusso come Cartier, Vacheron Constantin e Chloé. «Il 2008 era cominciato bene per noi - ha dichiarato il suo direttore finanziario Richard Lepeu - ma con il mese di ottobre l´atmosfera psicologica è cambiata drasticamente». Per anni il resto del mondo ha stigmatizzato l´abitudine degli americani di vivere al di sopra dei loro mezzi. All´origine di questa crisi c´è proprio l´accumularsi di squilibri finanziari provocati da una montagna di debiti made in Usa. Adesso però, se a Thanksgiving e a Natale il consumatore americano si decide finalmente a stringere la cinghia, per l´Europa e l´Asia saranno dolori ancora più acuti. Lo dimostra già il crollo delle esportazioni giapponesi verso il resto del mondo, un segnale di quanto la recessione stia colpendo duramente tutte le economie asiatiche. Il Giappone ha rivelato a sorpresa un deficit commerciale con l´estero nel mese di ottobre, la bilancia commerciale di Tokyo che è sprofondata in rosso per 63,9 miliardi di yen. E´ la prima volta da 28 anni. Crollano le esportazioni made in Japan verso l´Europa e gli Stati Uniti ma c´è anche l´improvviso declino dello 0,9% dell´export nipponico verso la Cina, l´ultimo mercato che ancora «tirava». Perché nei vasi comunicanti dell´economia globale il contagio depressivo è veloce. Ciascun paese dove i consumi si afflosciano, «esporta recessione» perché compra meno dal paese vicino. Attraverso questa cinghia di trasmissione la sindrome si insinua anche dentro il gigante cinese, la nazione più popolosa del mondo, l´unica locomotiva ancora in crescita. Per quanto corra la Repubblica Popolare, i segnali di rallentamento sono inequivocabili. Gli automobilisti di Pechino, Shanghai e Canton a ottobre hanno ridotto del 13% gli acquisti di benzina. La Toyota ha annunciato che a fine 2008 le sue vendite di vetture in Cina saranno inferiori al previsto di centomila unità. Le case automobilistiche cinesi, abituate ad aumenti delle vendite del 20% annuo, ora elemosinano aiuti di Stato come Ford e General Motors. Ancora più pesante è il ribasso nei consumi di gasolio per diesel - meno 46% - un segnale che i Tir cinesi hanno meno lavoro del solito. Il numero uno della compagnia petrolifera di Stato, Jiang Jiemin, ammette che «tutto è cambiato nell´arco di un mese». In ottobre sono calati anche i consumi di corrente elettrica, ed è la prima volta che questo accade in Cina dalla crisi asiatica del 1997. E´ emblematica la decisione di Pechino di varare una manovra di bilancio da 586 miliardi di dollari, investimenti pubblici e trasferimenti alle famiglie. La crescita del Pil cinese è rallentata da +11,7% l´anno scorso al 9% dell´ultimo trimestre: sembra ancora uno sviluppo vigoroso, ma è dall´epidemia della Sars nel 2003 che l´economia cinese non rallentava così. I dirigenti comunisti sanno che se la crescita del Pil scende al 7% annuo è l´equivalente di una recessione, perché non si creano posti di lavoro sufficienti ad assorbire le nuove leve giovanili e gli immigrati dalle campagne. Le tensioni sociali stanno già moltiplicandosi nel Guangdong. In questa regione meridionale sono fallite 30.000 aziende tessili. La metà delle fabbriche di giocattoli hanno chiuso i battenti e licenziato gli organici. Un Natale segnato dalla ritirata dei consumatori americani è l´incubo delle economie asiatiche. A loro volta le potenze emergenti sono costrette a tagliare gli acquisti. La grande gelata si fa sentire in ogni angolo della terra: i paesi produttori di materie prime si scoprono più poveri da quando i prezzi di minerali e metalli sono crollati del 35%. L´atterraggio è brutale e nessuno si sente al riparo, lungo un arco della crisi che ormai si estende dall´Angola all´Australia.