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 2008  novembre 15 Sabato calendario

La storia dei grattacieli storti, disassati, antisimmetrici – prima invocati per non escludere l’Italia dalla nouvelle vogue architettonica, poi denunciati come edifici alla moda e incompatibili con il contesto urbano della città europea ”, ha una data di inizio, che si può fissare nel 1985

La storia dei grattacieli storti, disassati, antisimmetrici – prima invocati per non escludere l’Italia dalla nouvelle vogue architettonica, poi denunciati come edifici alla moda e incompatibili con il contesto urbano della città europea ”, ha una data di inizio, che si può fissare nel 1985. l’anno in cui l’architetto Bernard Tschumi, vincitore del concorso per costruire il Parc de la Villette a Parigi, chiese al filosofo Jacques Derrida di collaborare con lui e con Peter Eisenman. Preso alla sprovvista, Derrida pensò che il suo propagandato «oltrepassamento della metafisica» attraverso la decostruzione della «traccia» potesse sperimentarsi anche in architettura. Dalla collaborazione con Eisenman nacque un abbozzo non realizzato, ma Derrida scrisse la presentazione dell’intervento al parco parigino realizzato da Tschumi intitolandola Point de folie - maintenant l’architecture, poi pubblicata in Psyché nel 1987 (parzialmente tradotta in italiano nell’antologia Estetica dell’Architettura edita da Guerini nel 1996). I «punti di follia» di cui parla Derrida sono rappresentati materialmente dalle folies, ovvero 42 casotti quadrati di colore rosso disseminati nel parco secondo una griglia rigida, uguali di misura ma ogni volta decostruiti, con funzioni d’uso diverse e arricchiti con differenti elementi pop: ora un gigantesco orologio, ora un sottomarino che fa da hall di ingresso, ora la ruota di un mulino (nella foto). L’intervento di Derrida suscitò un dibattito che trovò nuovo esito quando, nel 1988 al Moma di New York, Philip Johnson e Mark Wigley realizzarono una mostra di nuovi progetti intitolandola «Deconstructiviste Architecture». A quel punto il cortocircuito era avvenuto, e le «archistar» misero mano alla matita. Quell’intervento di Derrida, insieme ai dibattiti che ne seguirono, e ad altre riflessioni del filosofo sull’architettura, trovano ora definitiva pubblicazione italiana in un libro a cura di Francesco Vitale ( Adesso l’architettura, Scheiwiller, pp. 372, e 24). Questi saggi si configurano come un rapsodico commentario teorico all’architettura decostruttivista, non come una teoria. Il filosofo francese, non immune dallo scivolare in contorti esercizi di stile, lancia più che altro spunti di riflessione, argomenti senza però, come suo proprio stile, arrivare a definire un nuovo metodo e, ancor meno, statuti costitutivi di una disciplina. Come evidenzia nel saggio poi raccolto in Psyché, ciò che sarebbe da decostruire per Derrida è l’idea stessa che «l’architettura debba avere un senso, debba presentarlo e significare qualcosa». L’esperienza della decostruzione deve intervenire sul senso dell’abitare, sulla gerarchia dell’organizzazione architettonica, sull’idea che l’architettura debba essere al servizio di qualcos’altro e in vista di un fine. E anche sull’idea che l’architettura rientri nel campo delle belle arti, aspetto quest’ultimo che però, secondo l’antropologo Franco La Cecla, il decostruttivismo «ha invece favorito». «Il concetto di architettura è esso stesso un constructum mentale’ scrive Derrida ”. Un’assiomatica attraversa, impassibile, imperturbabile, la storia dell’architettura. Un’assiomatica, cioè un insieme organizzato di valutazioni fondamentali sempre presupposte. Questa gerarchia si è fissata nella pietra, informa ormai tutto lo spazio sociale». Per Derrida questa assiomatica, che coincide con l’intera storia del vitruvianesimo, ovvero quella che il critico inglese John Summerson ha definito Il linguaggio classico dell’architettura (1966) è da decostruire. A distanza di una ventina d’anni da queste proposte teoriche, l’uscita in italiano di questi testi è l’occasione per una prima verifica della stagione alla quale hanno fornito supporto teorico, prima che tutti gli studenti di architettura si mettano a laurearsi solo su edifici storti. Questa stagione è fatta di «oggetti» riusciti (Guggenheim di Bilbao di Gehry), parzialmente riusciti (Museo ebraico di Berlino di Libeskind), falliti (uffici al Mit di Gehry), in arrivo (grattacieli storti di Libeskind, Isozaki e Hadid a Milano), edifici riusciti e altri mostruosi nella provincia italiana. Decostruire il vitruvianesimo ha voluto dire superare la storia della trattatistica, dimenticare abdicare di fronte a metodi, tipologie, logiche urbanistiche per aprirsi a alla «chance», all’heideggeriano «far spazio». Una direzione scelta ancora da Aaron Betsky nell’ultima Biennale di architettura, nella quale si vuole «andare oltre l’edificio perché gli edifici ormai sono tombe», afferma Betsky, che vede in Derrida una carica di utile utopismo. Si tratta di una dimensione nella quale il relativismo nichilista si presenta come alternativa alla costruzione razionale. Il gioco, prende il posto della meccanica razionale e la dimensione nietzschiana della Gaia scienza e del dionisiaco il posto dell’illuministico «rigorismo » architettonico. Tanto che un teorico che punta tutto sulla geometria, come Nikos Salingaros, boccia senza mezzi termini Derrida come «cattivo maestro»: «Le sue sono parole vuote. Derrida ha decostruito prima la letteratura e la lingua, tagliando i legami tra significati che formano la base della comunicazione. Poi, ha voluto applicare lo stesso metodo distruttivo all’architettura. Solo che non era nemmeno capace di farlo, perché non sapeva niente di geometria. Il suo discorso con Eisenmann per il Parc de la Villette è assurdo. Senza volerlo, Eisenman ha mostrato che le idee di Derrida sono un metodo per distruggere, non per costruire».