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 2008  agosto 21 Giovedì calendario

IL (è

il nome del mensile del sole-24 Ore, non lo correggete per favore!!), venerdì 21 novembre 2008
Dei quattro fratelli l’ultimo è quello che gli somiglia fisicamente di più. Se uno vede Piero Maranghi impossibile che non gli venga in mente il padre Vincenzo, colui che per oltre 40 anni è stato l’amministratore delegato di Mediobanca, il delfino e poi, per poco, il successore di Enrico Cuccia alla guida del santuario della finanza italiana. Trentanove anni, una ex moglie, una compagna, una figlia, Maddalena, e uno in arrivo, poliedrico per indole («Non riesce a fare una cosa sola», mi diceva di lui il papà), Piero ha accettato questo pranzo-intervista con la promessa che si sarebbe parlato delle sue attività e soprattutto di musica, la principale. Non di suo padre morto due anni fa e di quello che ha rappresentato per il capitalismo italiano. Ma siccome la tentazione era forte, con gran pudore ci abbiamo provato e Piero, senza opporre resistenza, si è lasciato andare ai ricordi intimi. Ma abbiamo cominciato prendendola da lontano, dai massimi sistemi di questo mondo finanziario in rovina, dai tracolli dell’economia di carta. E soprattutto dal menù.
Si sta preparando anche lei alla recessione?
«Per fortuna non ho azioni, ma solo debiti legati alle mie attività. Se mai ho paura che le banche mi chiedano di rientrare, ma spero di no. Sono un debitore che rispetta le scadenze».
Eppure fuori poco sembra cambiato. Per esempio questo ristorante è pieno, e sapendo che è suo le banche non la tormenteranno...
«Neanche a me è ancora arrivata la percezione della crisi. Certo, la mia compagna vive nel palazzo della Lehman Brothers in piazza del Carmine, li ha visti uscire con gli scatoloni».
Per fortuna che la musica ci consola.
«Mica tanto. Ho visto che a settembre Sky Classica è rimasta ferma, e settembre di solito è un buon mese per gli abbonamenti».
Da quando la dirige?
«Dal 2004. Avevo cominciato con un gruppo di amici in Telepiù. Poi ce ne siamo andati travolti dal crollo dell’impero Kirch finché Jan Mojto l’ha comprata assieme ad altri pezzi del gruppo. E abbiamo ripreso».
Quando è arrivata la musica nella sua vita?
«Tardi, e per il coagulo di varie suggestioni: mia madre che ascoltava musica classica in cucina, mio padre che sentiva Chopin e Puccini, il professore di filosofia ex gesuita che mi ha introdotto alla musica da camera. E poi c’era la Scala, cui la mia famiglia è sempre stata molto legata se non altro perché mio bisnonno, Piero Portaluppi, l’ha rifatta».
Cose in pentola?
«Tre nuovi progetti: una "new-co" con Skira che ha vinto la gara per gestire marchio, negozio, e commerce di Scala 1778. La diretta del Don Carlo che sarà la prima della Scala il 7 dicembre. E il lancio di una collana di Dvd più libro tipo l’Otello di Shakespeare con dentro quello di Verdi, con testimonial Philippe Daverio».
Buona scelta. La musica classica ha bisogno di grandi affabulatori, anche se resta cosa per pochi. Felice di essere minoranza?
«Nel mondo globalizzato le nicchie possono stare sul mercato con buona soddisfazione».
Gode a vedere in Borsa la caduta degli dei?
«Godere non è nello stile della casa, però è un crollo salutare».
Il nostro che Paese è?
«Il Paese delle intercettazioni: i furbetti, il calcio, vallettopoli. Poi c’è Alitalia, metafora della voglia di arrivare alla resa dei conti: col sindacato, i fannulloni, gli studenti... Il Paese è assolutamente coerente nel suo decadimento».
Non salva nessuno?
«Uno finisce per salvare il presidente Napolitano, che è vecchio. Ma in fondo proprio perché vecchio è un esempio positivo e di moralità».
E di più giovane?
«Salvo Tremonti, almeno mi sembra uno che sa di che cosa parla e forse dove vuole arrivare».
Pessimista?
«Rassegnato. Berlusconi ha stravinto, ha reso tutti uguali a lui, o quasi. Nell’Italia del postfascismo non c’è stato un personaggio che abbia influenzato così profondamente il costume e la vita degli italiani. Lui ha scavato nell’antropologia della massa».
Mi spiega che rapporto c’è tra la ristorazione, la musica e la rigenerazione degli pneumatici?
«Lo pneumatico è un’avventura a termine, nasceva da un interesse industriale e ambientale. Il comun denominatore è la passione. Basta?».
Basta anche per fare una piccola holding diversificata.
«Si chiama MP1, come le mie iniziali. Volevo chiamarla Figaro, il factotum, ma non mi convinceva».
Lei è un po’ snob...
«Trova? Non direi, sono solo molto vanitoso».
Suo padre la spronava a non disperdersi.
«Però rispettava quel che facevo, certo non senza apprensione. Seguiva le mie attività con affetto e interesse maniacale: dalla disposizione dei giornali in libreria ai modelli di gestione del canale televisivo».
Si ricorda quando ci siamo conosciuti la prima volta? Io bevevo il caffè con suo padre che stava già male, e lei entrò nella stanza e andò a baciarlo sulla fronte.
«Noi quattro figli abbiamo sempre baciato papà e mamma. Lui dava di sé un’immagine arcigna, ma credo che tutti coloro che lo hanno incrociato hanno scoperto cose diverse».
Se la portava a casa Mediobanca?
«Ci sono mestieri dove non stacchi mai. La portava a casa perché somatizzava. Si sfogava fumando».
In un’ultima chiacchierata mi disse: «Non sono sicuro che il capitalismo durerà in eterno».
«Direi profetico, visto il disastro di oggi».
Come ve l’ha detto che dopo quarant’anni lasciava Mediobanca?
«Non ci siamo detti niente. Lui è arrivato a casa l’ultimo giorno e noi figli che abitiamo fuori eravamo tutti lì. Abbiamo cenato insieme, come nelle feste o nei momenti di lutto».
L’avete vissuta come una liberazione per lui?
«No, perché nella prova più difficile lui ha rispettato quelle prerogative di coerenza e di onestà intellettuale e morale che sono stati uno degli elementi fondanti della sua vita umana e professionale. Ma è vero che io ho sempre paventato l’idea di mio padre senza la banca»
L’ultima volta che ho fatto visita a suo padre l’ho trovato con addosso i segni della malattia. Mi disse: «Finché ho potuto l’ho tenuto nascosto...». Aveva un pudore estremo.
«Sì, e io non lo condividevo. Queste cose alla fine ti arrivano addosso ancora più violentemente proprio perché ti sono state tenute nascoste».
La sua famiglia ha poi voluto aprirsi all’esterno nel desiderio di perpetuarne la memoria. Sua madre che chiama per la messa di anniversario, che fa il rinfresco a casa...
«Mia madre si è fatta portatrice delle richieste di tante persone che in quel periodo per inibizione non hanno avuto modo di entrare in contatto con la famiglia».
Il sodalizio di suo padre con Cuccia?
«Incontro irripetibile tra due persone diversissime e piuttosto eccezionali. A quei tempi la diversità era una ricchezza, non un ostacolo».
Ma andavano sempre d’accordo?
«Su qualcosa la pensavano diversamente. Cuccia ad esempio preferiva un onesto a un mediocre, mio padre diceva che era meglio un farabutto ma intelligente».
Però trattavano tutti a pesci in faccia.
« una letteratura un po’ ciabattona di voi giornalisti. Certo, avevano le loro durezze, perché il loro era un mondo di nemici di cui si sente molto la mancanza, visto che oggi tutti sono amici, o i nemici durano al massimo una stagione. Allora i nemici duravano molto di più».
Qualcuno dice che il Paese è meglio di chi lo rappresenta.
«Balle, la politica è lo specchio di chi rappresenta. Adesso che ci penso, Berlusconi è uno che ha molti nemici».
Più che nemici si tratta di uno zoccolo duro di irriducibili.
«Che non fa opposizione. Ho visto una puntata di Anno Zero dove c’era Veltroni, parlava come uno che crede di essere ancora in campagna elettorale, diceva cose di una banalità sconfortante. Alla fine era meglio Cota, il leghista».
Per chi vota?
«Orfano dei radicali alle ultime elezioni ho votato Pd, ma non so se lo rifarei».
Lei è un milanese che frequenta l’establishment: come sta Milano?
«Malissimo. Questa è una città che ha perduto se stessa, forse per essere stata la città di Craxi. Ha ancora delle eccellenze e qualche elemento di dinamismo, ma sono fenomeni nascosti, autonomi, che non si compenetrano.
La Moratti?
«Un sindaco di grande esteriorità, lontano dal territorio. Ha giocato bene la sua partita sull’Expo, più per se stessa che per la città. il suo trampolino di lancio verso altri lidi».
E le istituzioni culturali?





«Ci sono grandi simboli negativi, come il Corriere della Sera, che rappresenta con coerenza la decadenza di questo Paese».
Le ricordo che suo padre ne è stato per tanti anni un importante azionista.
«Diceva che gli interessi erano così eterogenei che era arduo pretendere avesse una identità precisa, e che l’ultimo che telefonava faceva il titolo. Almeno De Benedetti con Repubblica porta un solo interesse, il suo».
La Scala sembra un ministero. Comprare un biglietto è un’avventura.
«Sono contento di quello che succede in teatro. Ci lavoro per le cose che le dicevo all’inizio».
E quando esce dagli uffici del teatro su via Filodrammatici guarda sempre a destra?
«Potrebbe essere diversamente?».
Dopo l’addio suo padre non è più tornato sul luogo del delitto?
«Mai, una volta abbiamo fatto tutto un complicatissimo giro pur di evitare di passarci davanti».
L’ultima cosa che le ha detto prima di morire?
«Una osservazione di politica, ma non la dico».
Siamo al caffè e abbiamo parlato di cose tristi. Ci metta uno zuccherino.
«A ore mi nasce un altro figlio» (che si chiama Giorgio Leone ed è nato poche ore dopo quel caffè, ndr).
Paolo Madron