Lorenzo Vidino, Panorama 27/11/2008, pagina 127., 27 novembre 2008
Panorama, giovedì 27 novembre Dove sono finiti centinaia di ex detenuti sauditi del carcere di Guantanamo dopo essere stati rimpatriati? La maggior parte non in spartane celle nel deserto, bensì in cinque lussuosi centri di riabilitazione per fondamentalisti, con tanto di camere private, televisori al plasma e Playstation
Panorama, giovedì 27 novembre Dove sono finiti centinaia di ex detenuti sauditi del carcere di Guantanamo dopo essere stati rimpatriati? La maggior parte non in spartane celle nel deserto, bensì in cinque lussuosi centri di riabilitazione per fondamentalisti, con tanto di camere private, televisori al plasma e Playstation. Dopo essere stata ripetutamente attaccata sul proprio suolo dal ramo locale di Al Qaeda, nel 2004 l’Arabia Saudita, da sempre culla (e portafoglio) del radicalismo islamico, ha deciso di affrontare il problema del fondamentalismo dilagante fra i propri giovani con un approccio alternativo. Gli ex detenuti della base statunitense a Cuba partecipano, assieme ad altri militanti sauditi arrestati in patria, a un programma creato dal governo di Riad per rieducare i terroristi. Molti dei leader jihadisti locali sono stati uccisi o arrestati, intanto i militanti più giovani e di secondo livello vengono ora sottoposti a un trattamento di riabilitazione in centri che ricordano le cliniche antialcolismo americane. Gli ospiti-detenuti sono trattati non come criminali, ma come vittime della propaganda jihadista e durante il loro soggiorno ricevono visite di psicologi ed esperti di religione che confutano le interpretazioni radicali del Corano. Dopo qualche mese, e dopo la solenne promessa di aver rinnegato la fede jihadista, i giovani sono liberati, con la speranza che cambino vita. Per aiutare il loro reinserimento le autorità saudite spesso forniscono un importante incentivo economico, una casa, un lavoro e perfino un aiuto a trovare moglie. Tuttavia, alcuni jihadisti non si ricredono affatto e altri fingono di essere cambiati solo per poter tornare in libertà. Alcuni militanti sono stati uccisi o catturati in combattimento dalle truppe americane in Iraq solo poche settimane dopo la loro «riabilitazione». Inoltre i concetti di moderazione sono alquanto relativi nel mondo saudita. Sebbene gli imam e i teologi predichino il rifiuto della violenza, la loro interpretazione della religione rimane in linea con quella ultraconservatrice del regno saudita e quindi adotta posizioni estreme e intolleranti nei confronti delle altre fedi, delle donne e degli omosessuali. L’obiettivo dei sauditi non è far adottare ai militanti una visione aperta dell’Islam, che d’altronde cozzerebbe con la dottrina ufficiale del regno, ma semplicemente far sì che abbandonino il «binladenismo» e riconoscano la legittimità della casa reale. Nonostante tali limitazioni, il programma saudita ha attratto l’attenzione degli esperti di mezzo mondo e ha ottenuto giudizi perlopiù positivi. Iniziative come quella saudita sono giudicate una necessaria evoluzione delle politiche di antiterrorismo. Arrestare terroristi, fermare i loro finanziamenti e condurre azioni militari per snidare i covi sono tattiche che, per quanto necessarie nel breve termine, non vanno alla radice del problema. Solo smascherando e attaccando l’ideologia che genera jihadisti si può pensare di ottenere una vittoria definitiva contro il terrorismo di matrice islamica. Questo nuovo approccio ha generato, dal Marocco al Sud-Est asiatico, un fiorire di programmi e iniziative per recuperare terroristi convinti e per prevenire la radicalizzazione di nuovi adepti. In Yemen, per esempio, il giudice Hamoud al-Hitar presiede il cosiddetto Comitato per il dialogo, le cui discussioni sull’interpretazione di vari concetti coranici con gruppi e individui vicini ad Al Qaeda hanno portato a discreti successi. Il dialogo stabilito da al-Hitar, il cui lavoro è attentamente studiato dal Pentagono come possibile metodo da applicare in Iraq e in Afghanistan, ha portato all’abbandono della violenza da parte di molti militanti yemeniti. In Indonesia le autorità possono contare sull’aiuto di un piccolo numero di ex militanti della Jemaah islamiyah, il gruppo affiliato ad Al Qaeda nel Sud-Est asiatico. Gli ex jihadisti, che hanno volontariamente abbandonato l’ideologia della Jemaah, sono ora impiegati dal governo indonesiano per convincere altri esponenti del gruppo a deporre le armi. Programmi contro la radicalizzazione sono presenti anche in Europa, dove gli attentati terroristici di Madrid e Londra hanno mostrato, come del resto era già ben chiaro agli addetti ai lavori, che l’estremismo è ben diffuso anche tra le nostre comunità islamiche. All’avanguardia nel Continente sono Gran Bretagna, Danimarca e Paesi Bassi. Gli olandesi partono da una valutazione più ampia del concetto di radicalizzazione rispetto a quella della maggior parte dei paesi islamici (e degli inglesi stessi). Il terrorismo è considerato la punta visibile di un fenomeno ben più esteso, il dilagare dell’ideologia islamista, sia nella sua forma violenta sia in quella prevalentemente politica e non violenta. I servizi segreti olandesi ritengono che dopo l’omicidio del regista Theo Van Gogh, nel 2004, la maggior parte degli islamisti olandesi abbia deciso di accantonare la violenza, privilegiando l’idea di costituire aree islamiche autonome, società parallele dove i musulmani dovrebbero separarsi «fisicamente e mentalmente» dalla società olandese, invece che integrarvisi. Considerato che in città come Amsterdam e Rotterdam la popolazione musulmana supera il 15-20 per cento e interi quartieri sono abitati pressoché esclusivamente da musulmani, il proposito è preoccupante. Il governo olandese ha reagito su diversi piani. Da una parte sono state predisposte dure misure per ostacolare le iniziative degli islamisti, dall’altra viene seguito un approccio morbido per evitare che i giovani musulmani olandesi siano attratti dal messaggio estremistico. Accademici, esperti di terrorismo, psicologi, agenti di polizia e assistenti sociali sono stati riuniti in gruppi di studio che hanno analizzato i problemi di integrazione della comunità musulmana olandese. Basandosi sulle loro raccomandazioni, ogni grande città, con Amsterdam a fare da modello, ha elaborato un proprio piano e predisposto ingenti somme per il suo funzionamento. Varie iniziative mirano a deradicalizzare i soggetti che mostrano simpatie per idee fondamentaliste. Un gruppo di assistenti sociali ed esperti, con il supporto della polizia, lavora con la famiglia e gli amici del giovane per convincerlo ad abbandonare tali idee. Altri interventi sono di carattere preventivo e si rivolgono a tutta la popolazione islamica, cercando di abbattere le barriere che dividono molti musulmani olandesi dal resto della società. Far sentire i giovani musulmani pienamente parte della collettività e instillare un senso di appartenenza a essa sono considerate condizioni decisive per evitare che, sentendosi esclusi, cerchino un rifugio nell’Islam radicale. Quindi nelle città olandesi si organizzano molte iniziative per far interagire giovani musulmani e olandesi, dalle gite ai programmi televisivi, dalle conferenze alle feste di quartiere. Ad Amsterdam alcune famiglie olandesi sono state portate a cena in casa di famiglie musulmane per la fine del Ramadan. Altre iniziative sono mirate a preparare i giovani musulmani al mercato del lavoro, offrendo loro un praticantato in aziende o corsi specializzati pagati dalle municipalità. Particolare enfasi viene data ai programmi riservati alle donne, la cui emancipazione è ritenuta condizione necessaria per una miglior integrazione di tutta la comunità musulmana. per ora difficile valutare il successo dei programmi olandesi, poiché i risultati si vedranno nel lungo termine. Anche se non rappresentano magici toccasana, sono comunque una significativa innovazione del modo di combattere la guerra al terrorismo. E, se efficaci, possono avere effetti benefici ben al di là della prevenzione di attacchi, contribuendo a un’armoniosa integrazione della minoranza musulmana. E l’Italia? Nonostante le differenze di dimensioni geografiche e di disponibilità finanziarie che ne renderebbero un’attuazione alquanto impegnativa, anche nel nostro Paese programmi come quello olandese avrebbero un sicuro impatto sull’integrazione dei giovani musulmani. Lo sostengono vari esperti dell’antiterrorismo, ma l’idea non pare arrivare alla fase concreta. In Italia, la prima generazione di musulmani autoctoni sta entrando nell’età critica solo adesso. Questo potrebbe rappresentare un vantaggio per il Paese, facendo tesoro delle esperienze nei paesi europei dove questo passaggio è avvenuto anni fa e agendo di conseguenza. Gli esempi non mancano, serve soltanto una lungimirante volontà politica che capisca che prevenire è meglio che curare. Lorenzo Vidino