Marco Sodano, La Stampa 20/11/2008, pagina 8, 20 novembre 2008
La Stampa, giovedì 20 novembre Per ogni posto di lavoro nell’industria automobilistica Usa - sono circa 240 mila -, ci sono altre sette persone impiegate indirettamente, venditori e fornitori
La Stampa, giovedì 20 novembre Per ogni posto di lavoro nell’industria automobilistica Usa - sono circa 240 mila -, ci sono altre sette persone impiegate indirettamente, venditori e fornitori. Non è tutto: i dipendenti dell’auto pagano l’assistenza sanitaria per due milioni di americani e le pensioni ad altri 750 mila. Basta moltiplicare per sette queste cifre per capire che se Detroit - lì hanno casa General Motors, Ford e Chrysler - vacilla, tremano tutti gli Stati Uniti. L’eventuale fallimento di uno dei tre big delle quattro ruote - tutte in pesante crisi di liquidità - fa più paura di quello delle grandi banche d’affari. Quelle, inondando il mercato di titoli farciti di debiti tossici, hanno moltiplicato gli effetti della crisi nella finanza, mandando in fumo miliardi di risparmio. Queste potrebbero replicare lo stesso meccanismo: ma nell’economia reale, facendo svanire lo stipendio, e l’assistenza sanitaria, alla fine addirittura le pensioni, di milioni di cittadini Usa. Detroit è l’epicentro di un ciclone che si ingrossa a vista d’occhio. Secondo Csm Worldwide tre quarti dei fornitori dell’auto fanno almeno il 20% del loro fatturato nel Michigan, il 37% supera la metà. Le agenzie di rating hanno ben presente il rischio: hanno ridotto il giudizio su due grandi fornitori e ne hanno messi sotto esame altri tredici. Nell’elenco ci sono colossi del calibro di Magna, Borg Warner e Johnson Controls. La situazione è grave, insomma, e l’America ne è consapevole. Senza un aiuto straordinario dallo Stato è convinzione diffusa che almeno uno dei tre grandi costruttori di auto di Detroit fallirà. Sulle conseguenze David Cole, professore alla University of Michigan, non ha dubbi: «Tutto il sistema - dice - è connesso in modo talmente stretto che se uno di questi ragazzi crollasse, si porterebbe dietro l’intero settore dell’auto». Qualcuno ha suggerito che, più che spingere per un piano di finanziamento straordinario, le case potrebbero ricorrere al Chapter 11, una forma di amministrazione controllata che permette alle aziende sull’orlo del fallimento di continuare la loro attività. Lo hanno fatto, in passato, moltissime compagnie aeree alle prese con il crollo che seguì l’11 settembre. Giusto ieri il numero uno di Chrysler Robert Nardelli ha ventilato questa opzione alla Commissione dei Servizi Finanziari della Camera, mentre l’amministratore delegato di General Motors Rick Wagoner ha parlato di colloqui in corso con la Fed per ottenere la stessa assistenza riconosciuta alle banche. Resta il fatto che l’auto non è l’aviazione e il Chapter 11 espone al rischio di un crollo verticale delle vendite: nessuno comprerebbe un’automobile da un costruttore che è sull’orlo del fallimento, con la prospettiva - dopo un crac - di non poter far valere la garanzia o di trovarsi in difficoltà con i pezzi di ricambio. Al Congresso si fronteggiano democratici e repubblicani: i primi spingono per accelerare il piano da 25 miliardi di dollari invocato nei giorni scorsi da Barack Obama - ma qualcuno sostiene che potrebbero bastarne 20 -, i secondi continuano a dirsi contrari. Non vogliono concedere gli effetti benefici di una mossa tanto popolare al neopresidente appena eletto. Durante le audizioni, cominciate la scorsa settimana, i sostenitori del pacchetto salva-auto hanno ricordato che il settore vale il 4% del Pil, che quasi tutti i posti di lavoro andrebbero persi tra le tute blu e che il Michigan ha già il tasso di disoccupazione più alto del Paese, il 9%. La speaker democratica del Congresso Nancy Pelosi giura che il fallimento di una delle tre sorelle di Detroit sarebbe «devastante». Sul fronte opposto i repubblicani: ieri la Casa Bianca ha annunciato che appoggerà un piano alternativo a quello invocato. Il portavoce Dana Perino ha detto che l’amministrazione Bush resta contraria a destinare altri fondi ai produttori d’auto. I repubblicani sostengono che il distretto di Detroit paga la sua incapacità di mettere sul mercato prodotti competitivi e che non è il caso di creare un precedente «pericoloso». La crisi, dicono i repubblicani, colpirà anche altri settori, non si può immaginare che lo Stato salvi tutti. «Vendano le partecipazioni all’estero»: come il franchising Ford Europe o la joint venture cinese di Gm. Chrysler l’ha già fatto, vendendo il 20% della sua partecipazione in Mazda. Sia come sia, sarà un bagno di sangue difficile da immaginare: «Nessuna impresa delle dimensioni di Gm o Ford è mai arrivata al Chapter 11 - commentano gli analisti -. Impossibile prevedere l’impatto economico di questa eventualità». Marco Sodano