Massimo Gaggi, Corriere della Sera 20/11/2008, 20 novembre 2008
«Alzi la mano chi è venuto a Washington con un volo di linea. Nessuno. Ma siete pronti, almeno, a vendere i jet privati delle vostre aziende disastrate? No? E io dovrei dire ai miei elettori che vi sovvenzioneremo coi loro soldi?»
«Alzi la mano chi è venuto a Washington con un volo di linea. Nessuno. Ma siete pronti, almeno, a vendere i jet privati delle vostre aziende disastrate? No? E io dovrei dire ai miei elettori che vi sovvenzioneremo coi loro soldi?». Nel giorno del nuovo crollo di Wall Street, con l’indice Dow sotto gli 8000 punti, al Congresso si consuma il massacro dei capi di Gm, Ford e Chrysler. Il secondo round di audizioni parlamentari sulla crisi dell’auto – stavolta davanti alla Camera, dopo l’hearing di martedì sera al Senato – è appena iniziato e per i capi di delle tre case di Detroit tira già un’aria pesantissima. Il "buongiorno" è arrivato presto, mentre si fa colazione in albergo, col «New York Times» che pubblica un commento di Mitt Romney: «Amo le auto, soprattutto quelle americane» scrive l’esponente repubblicano che si era candidato alla Casa Bianca. «Sono nato a Detroit e mio padre è stato il capo di un gruppo automobilistico. Eppure vi dico: lasciate fallire i produttori di Detroit. Solo così si ristruttureranno e ripartiranno da basi nuove. Salvandoli oggi, sprecherete i soldi del taxpayer: il loro declino continuerà. Crolleranno comunque». Arrivando al Congresso, l’amministratore delegato della General Motors Rick Wagoner e i suoi colleghi di Ford e Chrysler, Alan Mulally e Bob Nardelli, assistono allo show televisivo del senatore dell’Alabama Richard Shelby, uno dei più influenti parlamentari repubblicani, che chiede la testa di tutti e tre: «Non ci hanno presentato un modello alternativo a quello attuale, che è un modello fallito. Meglio, a questo punto, la bancarotta dei tre gruppi. I manager che li hanno guidati fin qui se ne devono andare». I capi di GM, Ford e Chrysler sapevano che la loro missione a Washington non sarebbe stata facile, ma sono ugualmente sorpresi. Si aspettavano critiche ma non tanto astio. Sono costretti a replicare in modo generico, senza mai alzare la voce: sono saliti a Capitol Hill col cappello in mano e ora non possono permettersi di irritare i parlamentari ai quali chiedono sovvenzioni. Speravano di essere difesi almeno dai democratici, ma i parlamentari della maggioranza, che pure lavorano dietro le quinte per cercare di far passare un prestito di emergenza per le tre case di Detroit, non hanno molta voglia di esporsi in pubblico a sostegno di manager che stanno battendo tutti i record d’impopolarità. La leader democratica alla Camera Nancy Pelosi e Barney Frank, il presidente della Commissione finanze, avvertono che salvare i colletti bianchi delle banche e non quelli blu dell’industria sarebbe discriminatorio: i 25 miliardi cash chiesti dall’auto sono tanti, ma sono pur sempre solo il 4% di quanto stanziato dal piano Paulson per il salvataggio di Wall Street e del sistema finanziario. Ma nel dibattito in aula le ragioni di chi sostiene che il fallimento anche di una sola delle tre società dell’auto farebbe crollare un intero settore industriale che vale 3 milioni di posti di lavoro e il 4% del Pil americano, vengono subissate dalle voci dei parlamentari decisi a non fase sconti ai manager dell’auto. Patrick McHenry, rappresentante repubblicano della North Carolina, è furente: «Lo so, magari vi sembrerà demagogico, ma trovo arrogante che voi continuiate ad usare aerei privati e veniate qui a chiederci soldi pubbici quando le industrie del mio Stato, dal tessile all’arredamento, non hanno avuto un dollaro di fondi federali. Eppure si sono ugualmente ristrutturate. O sono scomparse. Se vi diamo questi 25 miliardi cosa succederà domani? C’è già la fila, qui fuori: le industrie della componentistica, le stazioni di servizio, che hanno più dipendenti di voi. E perché non alle catene di ristoranti che sono in crisi come voi? Non la finiremo più coi salvataggi ». Un calvario per i tre manager dell’auto, ascoltati insieme a Ron Gettelfinger, il capo di Uaw, il sindacato dell’auto, che se la cava senza grossi danni: oggi il bersaglio non è lui. L’ultimo pugno ai manager lo sferra, dopo quattro ore di botta e risposta, Peter Roskam, repubblicano dell’Illinois: «Siete pronti a rinunciare ai bonus, e a tutte le entrate extra?». I tre farfugliano che i loro compensi sono stati già ridotti, che le stock option ormai non valgono più nulla, ma ormai nessuno li ascolta più. Massimo Gaggi