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 2008  novembre 19 Mercoledì calendario

NEW YORK

Il «convertito», come lo chiama il Washington Post - un liberista incallito che dopo 40 anni scopre le virtù di un mercato severamente regolato - ieri ha vissuto altre ore difficili davanti a un Congresso irritato per come ha usato la legge per il salvataggio delle banche. Il ministro del Tesoro Henry Paulson ha spiegato che gli interventi delle ultime settimane sono riusciti a stabilizzare il sistema finanziario e a sbloccare il credito, anche se ci vorrà tempo prima che le banche riprendano ad erogare prestiti ai ritmi del Paulson ha anche promesso di investire ancora qualche decina di miliardi di dollari nelle società che emettono carte di credito, prestiti agli studenti e finanziamenti per l’acquisto di automobili, in modo da riattivare il canale del credito al consumo.
Ma i parlamentari lo hanno ugualmente attaccato con durezza: molti lo hanno accusato di aver cambiato le carte in tavola (comprando quote del capitale delle banche anziché le obbligazioni «tossiche » finite nei portafogli degli istituti, come era previsto inizialmente) senza avvertire il Congresso.
«Ci avevate promesso aiuti per la casa e invece il disastro dei mutui continua e cresce il numero delle famiglie che perdono il loro alloggio» ha protestato il democratico Barney Frank, presidente della Commissione Finanze della Camera. E Steven LaTourette, repubblicano dell’Ohio, ha accusato il governo di aver deciso a tavolino quale banca doveva sopravvivere e quale no: i gestori del fondo del Tesoro - ha raccontato - si sono rifiutati di aiutare una banca dell’Ohio, mentre ne hanno finanziata un’altra che, con quei soldi, l’ha comprata.
Paulson si è difeso con grinta ed ha anche usato argomenti convincenti: ha spiegato che, anche se la crisi rimane grave, non è cosa da poco che il sistema sia sopravvissuto a una spaventosa distruzione di ricchezza. Ed ha fornito un dato impressionante: le istituzioni che nei mesi scorsi «sono fallite o hanno vissuto una situazione che equivale a un fallimento», e cioè Bear Stearns, IndyMac, Lehman Brothers, Washington Mutual, Wachovia, Fannie Mae, Freddie Mac e il colosso assicurativo Aig, all’inizio del 2008 avevano un patrimonio complessivo di 4,7 trilioni di dollari: una cifra pari a due volte e mezzo il Prodotto interni lordo dell’Italia. Una ricchezza andata quasi completamente in fumo.
Il banchiere di Goldman Sachs divenuto ministro ha anche detto che non chiederà al Parlamento di poter usare la seconda metà del fondo di salvataggio da 700 miliardi votato dal Congresso il 3 ottobre scorso perché i risultati ottenuti con i 290 miliardi già spesi (250 per ricapitalizzare le banche e 40 per impedire il fallimento del gruppo assicurativo Aig) gli sembrano sufficienti, almeno per il momento: meglio dunque risparmiare le munizioni, consentendo all’amministrazione Obama, che si insedierà il prossimo 20 gennaio, di non scendere in campo disarmata.
Ma, come detto, non è bastata nemmeno questa apertura ai democratici a lenire il mal di pancia di un Congresso costretto a varare salvataggi forse necessari, ma estremamente impopolari.
Ieri quello delle banche, oggi quello dell’auto, domani chissà. Ieri, mentre il ministro Paulson e il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, lasciavano la Camera ad audizione conclusa, al Campidoglio sono arrivati i capi di General Motors, Ford e Chrysler per un altro «hearing », quello convocato dal Senato per discutere la situazione fallimentare delle tre Case automobilistiche di Detroit.
I manager di quelle che una volta erano chiamate le «Big Three» hanno chiesto un aiuto immediato: in caso contrario - hanno spiegato - rischiano di andare in bancarotta nel giro dei prossimi mesi; la General Motors già a gennaio. I parlamentari democratici vogliono aiutarli, anche per non «battezzare» la presidenza Obama con fallimenti che produrrebbero altre centinaia di migliaia di disoccupati. Ma devono affrontare la dura opposizione dei repubblicani e, comunque, si rendono conto che questo salvataggio è estremamente impopolare: la maggioranza dei cittadini è convinta che manager e sindacati si siano trastullati per anni, mentre i produttori stranieri miglioravano sia i loro prodotti sia i processi produttivi.
Insieme al capo di Ford Alan Mulally e a quello di Chrysler Bob Nardelli, l’amministratore delegato di Gm Rick Wagoner è andato a chiedere un contributo immediato di 25 miliardi di dollari. Rimettere in piedi l’azienda dopo una eventuale dichiarazione di bancarotta, ha ammonito, sarebbe difficilissimo. I posti di lavoro che rischiano di andare perduti, tra industria automobilistica e indotto, sono almeno 2,5 milioni.
Un «ricatto» che potrebbe spingere il Parlamento a cedere, ma che fa certamente infuriare i repubblicani, induce Bush a preannunciare veti (se questo salvataggio verrà votato nelle prossime settimane) e che lascia l’amaro in bocca anche ai democratici: tutti chiedono conto ai manager dei loro fallimenti e sono consapevoli che i dieci miliardi chiesti dalla General Motors per sopravvivere basteranno a malapena all’azienda per superare l’inverno: a marzo saremo di nuovo nella stessa situazione di oggi.
***MASSIMO GAGGI PER IL CORRIERE DELLA SERA DI MERCOLEDì 19 NOVEMBRE 2008