Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 19/11/2008, 19 novembre 2008
«Curiosa». Dietro l’aggettivo scelto dal manifesto per definire la scelta della Cgil di Treviso di chiedere uno stop all’arrivo di nuovi immigrati prima che siano smaltiti quelli che già sono sul posto, in lista d’attesa per lavoro o disoccupati dopo averlo appena perso con le prime avvisaglie della crisi, c’è tutto
«Curiosa». Dietro l’aggettivo scelto dal manifesto per definire la scelta della Cgil di Treviso di chiedere uno stop all’arrivo di nuovi immigrati prima che siano smaltiti quelli che già sono sul posto, in lista d’attesa per lavoro o disoccupati dopo averlo appena perso con le prime avvisaglie della crisi, c’è tutto. C’è lo sconcerto di un pezzo della sinistra verso il sindacato più «amico». La difficoltà di capire una scelta impensabile, nell’ottica dei vecchi schemi. L’imbarazzo di sottolineare che si tratta di una opinione «in linea con il ministro Maroni». Eppure, è la stessa biografia del segretario cigiellino della Marca a offrire la chiave di lettura. Paolino Barbiero, come ha scritto Il Corriere del Veneto, non è un sindacalista da scrivania ma da battaglia, «storicamente paladino dei precari e delle fasce più deboli» nato «come leader delle tute blu». E potete scommettere che il paragone con Maroni e l’appoggio della Lega Nord non gli fanno particolarmente piacere. Il problema che pone, però, è sensato. E nasce dalla consapevolezza che le strategie sindacali, le battaglie civili e insomma la politica non possono essere appese al soffitto come i caciocavalli ma devono tenere sempre conto della realtà. E la realtà, in una provincia come quella di Treviso, dove vivono già centomila immigrati e l’anno scorso le quote garantivano solo 3mila posti di lavoro contro 12mila domande, è densa di nuvoloni neri. Imprese in crisi, cassa integrazione, licenziamenti... Tutte cose che stanno facendo crescere nel Veneto profondo un sentimento di insicurezza economica che si mischia con l’insicurezza sociale e le mille paure, spesso perfino immotivate (come quella per gli omicidi, che sono un quarto rispetto agli anni Ottanta) legate a torto o a ragione alla immigrazione. Erano povere, queste terre, fino a pochi decenni fa. Basti ricordare che tra i censimenti del 1951 e del 1961 alcuni paesi come Gorgo al Monticano persero con l’emigrazione (che già aveva svuotato il Veneto a cavallo tra Ottocento e Novecento) il 27% della popolazione. La memoria della povertà è conficcata nella testa della gente. E la paura di «tornar poareti» non aiuta a vivere serenamente la congiuntura in arrivo. Cosa succederà, se la crisi dovesse rivelarsi ancora peggiore del temuto? Chiamato a scegliere chi lasciare a casa, il piccolo imprenditore che si è spaccato la schiena per la sua fabbrichetta rinuncerà al giovane immigrato disposto a lavorare di più, a chiudere un occhio su certe rigidità sindacali e accettare un salario più basso o al dipendente veneto meno disponibile a certi sacrifici? Farà la sua scelta badando alla «razza Piave» o solo alla sopravvivenza della sua impresa? E quella insofferenza strisciante nei confronti degli immigrati, che al di là di certe sparate razziste di alcuni figuri leghisti è sempre stata moderata in questi anni dalla necessità di nuova manodopera per reggere la concorrenza, non rischierà di scatenare una guerra tra gli ultimi dalla quale potrebbero uscire con le ossa rotte (non solo metaforicamente) proprio gli immigrati? «Vedo rischi di ordine pubblico», ha detto il segretario regionale della Uil Gerardo Colamarco. Ha ragione. Con i problemi, al di là dei principi astratti, è meglio farci i conti. E porsi il problema che si pone la Cgil trevisana non c’entra niente col razzismo. Anzi: cerca di contenere il possibile divampare di un incendio.