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 2008  novembre 19 Mercoledì calendario

MILANO

Nelle ultime settimane ne ha discusso a lungo con il presidente Roy Bostock. E ieri, infine, l’annuncio ufficiale: Jerry Yang getta la spugna. Non appena individuato il successore, la cui ricerca è già stata affidata alla Heidrick & Struggles, lascerà l’incarico di amministratore delegato di Yahoo, la società internet che ha fondato 13 anni fa insieme a David Filo. Resterà nel board, ma dal punto di vista operativo tornerà a dedicarsi allo sviluppo delle tecnologie.
L’addio di Yang, una delle icone della web-economy, segna l’atto finale della lunga resistenza che il vertice della società di Sunnyvale, nella Silicon Valley californiana, ha opposto alle proposte d’acquisto avanzate da Microsoft. Sono in molti infatti a scommettere su una nuova apertura dei negoziati con il gruppo di Redmond. Tanto che ieri, al Nasdaq, il titolo Yahoo ha interrotto la sua lunga discesa negli abissi ed ha di colpo guadagnato l’8,65%.
Proprio Yang è stato il maggiore oppositore all’accordo con Microsoft.
Chiamato a guidare la società per riparare agli errori di Terry Semel, l’amministratore delegato proveniente da Hollywood che ha trasformato Yahoo in una sorta di media company ed ha perso così la sfida sulla pubblicità online con Google, il ragazzo prodigio di internet, californiano di nascita ma di origini cinesi (di Taiwan), non ha saputo cambiare rotta. Così Yahoo è rimasta senza una direzione precisa, con il titolo che ha continuato a perdere terreno in Borsa. E quando, lo scorso gennaio, Microsoft ha messo sul piatto 31 dollari per azione per comprarsela, lui ha replicato con un secco «no», nel nome dell’indipendenza di Yahoo. Il 60% degli azionisti l’ha appoggiato, ma gli altri gli si sono rivoltati contro. A cominciare dal finanziere Carl Icahn. E forse, la decisione di farsi da parte, Yang ha cominciato a maturarla verso aprile, quando, dopo un’ennesima tornata di colloqui, Microsoft ha deciso di chiamarsi definitivamente fuori dalla partita. Una scelta che, stando a chi lo conosce bene, ha «sconcertato» lo stesso Yang.

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«Una proposta che non rispecchia neanche lontanamente il vero valore della nostra società». Era il 31 gennaio 2008, Microsoft aveva appena offerto di acquistare Yahoo pagando 31 dollari per ogni azione. Un’operazione da 47 miliardi di dollari complessivi, alla quale Jerry Yang ha risposto quasi si trattasse di un insulto. Ma rilette oggi, le sue parole fanno quasi (e senza quasi) sorridere. Di certo i 31 dollari non riflettono «neanche lontanamente» il valore di Yahoo, i cui titoli sono scesi passo passo fino al minimo di 10,63 dollari. E anche dopo il balzo di ieri non raggiungono comunque i 12 dollari.
L’incertezza strategica della società di Sunnyvale spiega però solo una parte della situazione. A mandare a fondo il titolo Yahoo ci si è messa anche, e soprattutto, la recessione che ha ormai colpito le economie occidentali e rischia di estendersi ora alle economie emergenti come Cina, India o Brasile. In questo, la società di Sunnyvale è in buona compagnia. Amazon, tanto per citare un altro big di internet, valeva a inizio anno 88,79 dollari per azione e adesso viaggia sotto i 40. Per comprare un titolo Google ci volevano 657 dollari, quando ora ne bastano meno di 300. Lo stesso vale per due giganti nati all’alba dell’informatica: Microsoft è scesa da 33,99 dollari agli attuali 19, Apple è passata da 180 a meno di 90 dollari.
Chi pensava che l’economia hi-tech potesse essere la diga in grado di resistere ai colpi della crisi finanziaria globale (perché tale sembrava fino alla scorsa primavera) ha fatto davvero male i suoi conti. Ora che il crac dell’economia di carta si sta trasformando nel crac dell’economia reale non c’è argine che tenga. Il crollo dei consumi, sia da parte delle singole persone sia delle imprese, colpisce duro produttori di hardware come di software. E la caduta degli investimenti pubblicitari rappresenta un salasso per gruppi che su questo vivono, da Google a Yahoo e così via.
Così, giorno dopo giorno, sta già andando in scena la corsa al downsizing. Oltre 6 mila dipendenti tagliati da Sun Microsystems, 600 esuberi a Nokia, solo per citare due nomi altisonanti di un elenco già molto lungo. Secondo la società specializzata Challenger, nell’industria hi-tech americana (elettronica, telecomunicazioni, computer, internet) sono svaniti da inizio anno 140.422 posti di lavoro, con prospettive di superare quota 180 mila entro fine anno. Ed è solo l’inizio, perché nessuno sa dire quanti diventeranno da qui al momento in cui la recessione globale sarà terminata. Il raffronto con il 2000-2001, quando cioè s’è fragorosamente sgonfiata la bolla dot.com, è inevitabile. In quell’anno negli Usa sono scomparsi 700 mila posti di lavoro. Solo che allora si trattava del conto salato di una follia collettiva che aveva portato il Nasdaq oltre i 5 mila punti. Ora si precipita da un gradino molto più basso (e più reale), visto che il Nasdaq non è mai più riuscito a raggiungere i 2 mila punti.