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 2008  novembre 18 Martedì calendario

Il Riformista 18/11/2008 Il suo nome vuol dire "d’oro". In una lingua che lui dice di non sapere bene cosa sia

Il Riformista 18/11/2008 Il suo nome vuol dire "d’oro". In una lingua che lui dice di non sapere bene cosa sia. Lo dice in un’intervista al Times di Londra, raccontando di una tizia che gli ha chiesto «ma quello che parli tu è serbo-croato?» «Boh, è quello che parlo con i miei genitori , coi miei fratelli invece parliamo svedese». E fa subito la figura dell’animale da calcio, del ragazzo venuto su dalla strada grazie al pallone, però rimasto rozzo e ignorante come una bestia, e come infondo è giusto che sia. Tu paghi uno perché la sua storia ce l’abbia nelle gambe e non altrove. Un sito di fan gli viene incontro, spiega che il suo nome è "bosnian". Come "bosnian" è suo padre Sefik, venuto da Bijelijna, croata sua madre Jurka, nata a Zara, ma di un villaggio di trecento anime che lascia a diciassette anni per andare a lavorare in Germania. da lì parte con un figlio piccolo e un divorzio alle spalle, prosegue verso Nord, la Svezia è ricca, accogliente e offre sostegni a una ragazza madre, ma a Malmö non rimane a lungo sola, conosce un ragazzo con cui va a finire che si risposa. Trovano casa in un quartiere chiamato Rosengård, ossia "giardino di rose": e stavolta il nome è chiaramente in svedese. Jurka va a fare le pulizie, Sefik lavora dove capita - magazzini, dock, cantieri - e quando negli anni 90 va tutto in crisi, come guardia giurata. Rosengård è stato costruito all’epoca del boom, all’interno di un programma nazionale di sviluppo chiamato "miljonprogrammet" che doveva fornire un milione di nuove abitazioni, case per tutti e a basso costo I palazzi tirati su, almeno quello dove capitano Sefik e Jurka, sono prefabbricati, ma c’è tanto verde intorno, asili, parchi gioco, scuole. Non è un postaccio, solo che gli svedesi ci vanno malvolentieri ad abitare, preferiscono pagare di più per le loro casette di legno senza tende né persiane, e quindi fino a quando non arrivano gli immigrati, i condomini restano mezzi vuoti. Quelli che si stabiliscono per primi, vengono dalla Turchia o dalla Jugoslavia, e fuori dal quartiere, ossia nel resto dell’Europa nord-occidentale vengono chiamati "jugo", "jugge" in svedese. Così Jurka e Sefik, jugge fra jugge in Scandinavia, scelgono di dare al secondo bambino che nasce il 3.10.1981 un bel nome comune jugoslavo. Zlatan ha tatuato all’interno delle braccia, a lettere gotiche grandi e nere, i nomi del padre e della madre, e sopra i polsi, le date di nascita dei suoi familiari: i maschi a destra - Sefik, 23.8.1951, Sapko 30.4.1973, Alexsandar 10.7.86; a sinistra le donne - Jurka, 16.4.1951, Sanela, 18.7.1979 - separati come in una moschea. Quando nascono i suoi figli, aggiunge al braccio dei maschi le scritte Maximilian e Vincent e i loro compleanni. Gli unici edifici degni di menzione a Rosengård sono un centro commerciale chiamato Rosengård Centrum in lettere bordò e la moschea appena fuori dal quartiere. La più grande in tutta Malmö, fornita anch’essa di asilo, asilo nido e parco giochi, ha una forma ottagonale, due minareti e una grande cupola grigia centrale, in cima la mezzaluna. Sefik Ibrahimovic, oltre a essere "bosnian" è pure "muslim", cosa che si capisce dal nome turco e dal cognome formato sulla versione araba di Abramo, ragion per cui mia madre, che storpia ogni nome, si ostina a chiamare come il padrone ebreo russo del Chelsea l’attaccante dell’Inter, cosa che esaspera mio figlio. "E allora spiegami, quale di quelli là è il tuo Abramovich?". "Ibrahimovic, nonna!" "Come?" "I-bra-hi-movic, ma tanto non lo impari". Un quarto degli abitanti di Malmö è musulmano e fra quelli che abitano a Rosengård più di tre quarti. Zlatan si è fatto tatuare sul dietro del braccio riservato ai maschi, da spalla a gomito, il nome della stirpe - IBRAHIMOVIC - ma scritto in arabo. Secondo il sito dei suoi fan, non vuole dire che si curi molto di queste cose della religione, come immagino sarà importato poco anche a Sefik, arrivato ragazzo dalla patria socialista alla Svezia socialdemocratica, a trent’anni padre di due figli più quello di Jurka che sempre il sito calcistico definisce "christian". "Catholic", a quel punto, sennò più tardi sfugge chi giù al paese comincia ad ammazzare chi e col supporto di quale religione. Se fosse rimasta, ci sarebbe forse stato qualche prete o parente nostalgico di Ante Pavlevic e del Beato Alojzije Stepinac che, malgrado Tito, le avrebbe ricordato il dovere di una madre cattolica di dare ai figli i sacramenti e gli insegnamenti della Chiesa, sussurrando che i secoli in cui difesero la fede contro i turchi non dovevano essere passati invano. Ma lassù a Malmö? In Svezia dove i preti sono sposati e persino donne e possono unire in matrimonio coppie gay? Jurka sgobba all’estero da quando ha diciassette anni, telefona e manda a casa pacchi e soldi, ed è già tanto che con un figlio sul groppone si è trovata un’altra volta un ragazzo jugoslavo, un marito che non beve troppo e lavora tanto. Quindi dov’è il problema? Ne ma problema, basta che stiano tutti bene e che i bambini - tutti - crescano sani. Helena Janeczek (1-continua)