Giacomo Ferrari, Corriere della Sera 18/11/2008 Massimo Gaggi, Corriere della Sera 18/11/2008, 18 novembre 2008
GIACOMO FERRARI PER IL CORRIERE DELLA SERA DI MARTEDì 18 NOVEMBRE 2008
Gli aiuti all’industria dell’auto dividono la politica americana. Il presidente neo-eletto, Barack Obama, vorrebbe che il Congresso approvasse «al più presto» un pacchetto di misure per rilanciare le «tre sorelle » di Detroit, vale a dire General Motors, Ford e Chrysler. E i democratici del Senato hanno presentato in serata un provvedimento di aiuti finanziari per il settore. Ma George W. Bush, per il momento ancora inquilino della Casa Bianca, non è dello stesso parere. O meglio, stando a una dichiarazione della portavoce Dana Perino, non vuole che gli interventi arrivino dal maxi-piano da 700 miliardi già varato per le banche, bensì «dal programma specifico per l’auto» che è di soli 25 miliardi di dollari e che riguarda fondi del Dipartimento per l’Energia destinati a sviluppare veicoli più efficienti. I fondi alle banche, tra l’altro, resteranno congelati, per la parte non ancora utilizzata (circa 350 miliardi) fino all’insediamento di Obama: lo ha detto ieri sera il segretario al Tesoro Henry Paulson. Anche per l’auto c’è il rischio rinvio. La crisi, però, è drammatica. Aspettare altri mesi potrebbe portare a conseguenze devastanti, se si considera che il settore auto negli Usa rappresenta quasi il 4% del Pil. General Motors ha lanciato su YouTube un video (dal titolo «Che cosa succede se crolla Detroit?») nel quale si parla di «collasso imminente». Lo scopo è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica e di conseguenza i rappresentanti eletti al Congresso, sulla necessità di intervenire al più presto.
In Europa, intanto, il caso auto è altrettanto «caldo». Al di là della richiesta dell’Acea (l’associazione dei costruttori) all’Ue per un finanziamento da 40 miliardi di euro, i primi a muoversi sono stati i tedeschi. Per sostenere la Opel, che dovrà fare a meno dell’aiuto del proprio azionista General Motors, c’è la disponibilità della regione dell’Assia (una delle quattro in cui hanno sede le fabbriche) e c’è l’ipotesi che si muova il governo centrale. Ieri la cancelliera Angela Merkel ha detto però che l’esecutivo non ha ancora stabilito se l’intervento pubblico sia davvero necessario. E che, comunque, entro Natale ci sarà una decisione. Ma da Strasburgo il presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Junker avverte: gli interventi per l’auto dovranno essere «coordinati», non lasciati all’iniziativa di ogni singolo Paese. Una eventuale iniziativa europea potrebbe passare attraverso la Bei, non prima però di averla dotata di nuovi mezzi, poiché 40 miliardi di euro rappresentano un impegno pari a quasi l’intero flusso annuale dei finanziamenti erogati dalla banca.
MASSIMO GAGGI PER IL CORRIERE DELLA SERA DI MARTEDì 18 NOVEMBRE 2008
NEW YORK – Bilanci in rosso fisso, piazzali pieni di auto invendute. E, in catalogo, soprattutto veicoli pesanti, che consumano molto, mentre il petrolio – più costoso e più scarso – spinge il mercato a chiedere vetture "risparmiose". E’ la storia della General Motors di oggi, ma anche quella della Chrysler di 30 anni fa. Come la GM in queste settimane, la più piccola delle "big three" di Detroit arrivò, allora, sull’orlo della bancarotta: furono il Congresso e il presidente – il democratico Jimmy Carter – a salvare l’azienda. La legge che concesse 1,2 miliardi di aiuti pubblici alla Chrysler fu approvata nel 1979 dal parlamento tra molte polemiche.
Come accade anche oggi per la GM, allora i repubblicani ritenevano che sarebbe stato meglio lasciar fallire l’azienda. Non erano i soli a pensarla così. Leader democratici di rango come il senatore Gary Hart si opposero al salvataggio: una liquidazione, dicevano, avrebbe fatto risparmiare soldi ai contribuenti, mentre la scossa della bancarotta avrebbe fatto nascere, dalle ceneri del vecchio gigante, un’azienda molto più snella e competitiva.
I paralleli tra le due situazioni finiscono qui: oggi i democratici, Hart compreso, sono favorevoli a interventi pubblici perché ritengono che, a differenza di allora, il sistema produttivo Usa sta correndo rischi mortali. Alla fine degli anni ’70 quella della Chrysler era una crisi abbastanza isolata, mentre la sostenibilità di un sistema nel quale le imprese fornivano ai loro dipendenti anche l’assicurazione sanitaria e la pensione non veniva messa in discussione.
I salvataggi erano rarissimi e non avevano una connotazione ideologica. Pochi mesi prima di soccorrere Chrysler, Carter aveva varato la legge di "deregulation" del trasporto aereo: la prima grande liberalizzazione dell’economia americana (un processo ripreso e ampliato due anni dopo da Reagan che lo trasformò, dandogli il suo marchio, nella bandiera di una nuova era). Curiosamente, tra l’altro, i principali interventi dei decenni scorsi a sostegno della "corporate America" portano un’impronta repubblicana: non solo i recenti interventi a favore delle banche e di Wall Street, ma anche il salvataggio della Lockheed (nel 1971, con Nixon presidente), della Continantal Illinois Bank (1984, in piena era Reagan) e delle S&L, le casse di risparmio (1989, presidente Bush padre). Anche gli aiuti pubblici alle aviolinee dopo l’attentato del 2001 alle Torri gemelle caddero in era Bush (figlio).
Stavolta, però, non si tratta di affrontare un problema circoscritto: la crisi è sistemica e rischia di far scivolare un Paese già in piena recessione, in una depressione vera e propria. Obama ha tra le mani un sistema previdenziale e sanitario basato su un assunto – quello della (relativa) stabilità dei datori di lavoro – che ormai è stato spazzato via. Il neopresidente ha davanti a sé un dilemma spaventoso: se salva General Motors sarà accusato di aver gettato decine di miliardi di dollari dei contribuenti in una fornace, verrà assalito dalle richieste di cento altre industrie in crisi (a partire da Ford, Chrysler e dai componentisti dell’auto che ieri si sono già fatti avanti) e, obbligato a imporre vincoli alle aziende che ricevono denaro pubblico, finirà per ingessare il libero mercato.
Se la lascia fallire mette in pericolo il futuro di un settore industriale (l’auto "made in Usa") che vale, indotto compreso, 2,5 milioni di posti di lavoro, proprio mentre la disoccupazione si impenna in tutti i settori.
In tempi normali una dichiarazione di bancarotta consentirebbe alla GM di azzerare molti oneri e di ripartire, più piccola ma più sana. Da giorni le controindicazioni di un salvataggio vengono analizzate non solo dagli economisti conservatori, ma anche dalla stampa progressista: a fronte di una quota del mercato Usa scesa in 40 anni dal 53 al 20 per cento, GM dovrebbe continuare a mantenere una rete di ben 7.000 concessionari contro i 1.500 di Toyota e i 1.000 di Honda; e continuerebbe a dover pagare pensioni e sanità anche a un esercito di 479 mila pensionati. Una situazione insostenibile, ma questo è il momento dell’emergenza, non delle riforme sociali. Alla fine anche economisti democratici un tempo "rigoristi" come Larry Summers, non se la sentono di opporsi al ricorso ai puntelli. Obama è ormai deciso a salvare Detroit. Non sarà più vero, come si diceva un tempo, che quello che va bene per la General Motors va bene per l’America. Ma se in tempi normali – scriveva ieri Robert Samuelson sul "Washington Post" – "la bancarotta di GM sarebbe tollerabile e, anzi, utile", nelle condizioni attuali "la posta in gioco non è più il salvataggio di una società o di un certo numero di posti di lavoro, ma la tenuta dell’economia Usa" nel suo complesso.
Massimo Gaggi