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 2008  novembre 18 Martedì calendario

Tra il 1931 e il ”33 l’Italia si trovò nel pieno di una vasta crisi bancaria. Non era la prima

Tra il 1931 e il ”33 l’Italia si trovò nel pieno di una vasta crisi bancaria. Non era la prima. La storia unitaria è punteggiata da crisi bancarie, scandali e salvataggi: la caduta del Credito Mobiliare, lo scandalo della Banca Romana, il fallimento della Banca di Sconto. Ma in quella circostanza, anche in conseguenza della depressione mondiale seguita al crollo di Wall Street del ”29, le maggiori banche entrarono in crisi, a cominciare dalla Comit, allora la più importante banca italiana e tra le maggiori in Europa. Forse, pur nella diversità della situazione attuale, può essere di qualche interesse ricostruire quelle lontane vicende nelle quali il piano di salvataggio messo a punto da Alberto Beneduce si dimostrò molto efficace. Sulle cause della crisi vi sono le testimonianze di due protagonisti del tempo. Raffaele Mattioli, successore del capo della Comit, Giuseppe Toeplitz, racconta: «Alla vigilia della crisi 1930-31, la struttura delle grandi banche italiane di credito ordinario aveva subito trasformazioni, o meglio deformazioni. Il grosso del credito erogato era fornito a un ristretto numero di aziende, un centinaio, che con quell’aiuto avevano potuto svilupparsi notevolmente, ma che ne dipendevano ormai al punto di non poterne più fare a meno. La fisiologica simbiosi si era mutata in una mostruosa fratellanza siamese. Le banche erano ancora banche ”miste” sotto l’aspetto formale, ma nella sostanza erano divenute banques d’affaires, istituti di credito mobiliare legati a filo doppio alle sorti delle industrie del loro gruppo. Per salvaguardarsi dai fin troppo evidenti pericoli di questa situazione, le banche avevano ricomprato praticamente tutto il loro capitale. Una prima deformazione ne provoca un’altra. Abyssus vocat abyssum». La seconda parte della storia riguarda il coinvolgimento drammatico della Banca d’Italia nella crisi. La narrò, nel ”44, Donato Menichella, direttore generale dell’Iri dalla sua costituzione nel 1933 prima di tornare in Banca d’Italia e divenirne governatore. Quando le banche cominciarono ad avere difficoltà a farsi rimborsare dai grandi debitori, «si rivolsero all’Istituto di emissione e questo largamente concesse loro credito sia sotto forma di anticipazioni e sconti dapprima di portafoglio commerciale, poi di grossi cambialoni emessi dalle aziende industriali». Ben oltre metà della circolazione bancaria nel ”33 era costituita da questi finanziamenti della Banca d’Italia. A tal punto, prosegue Menichella, «che in tale situazione non si poteva più parlare di un problema delle grandi banche distinte e separate da quello dell’Istituto di emissione; se le banche avessero avuto ancora bisogno di fondi lo Stato si sarebbe trovato non già di fronte al problema di fare o non far fallire le banche, sibbene di fronte all’altro problema di far concedere ancora crediti all’Istituto di emissione o di dichiarare la bancarotta di esso». Sia detto fra parentesi, ma il rischio di alcune delle misure prese in queste settimane dai governi e dalle banche centrali è di questa natura. L’aspetto notevole del piano d’intervento di Beneduce fu l’organicità. Nel gennaio ”33 il governo istituì l’Iri. Non gli attribuì alcun fondo iniziale di dotazione, ma gli garantì un contributo annuale per vent’anni e l’autorizzò a emettere obbligazioni. L’Iri fece due operazioni. Con la prima rilevò da Comit, Credito e Banco di Roma i pacchetti azionari che detenevano. Stimando queste attività 7 miliardi di vecchie lire, riconobbe alle banche un credito di 12 miliardi di lire che s’impegnò a restituire in 20 anni a un tasso del 4%. Il calcolo del debito venne fatto nel presupposto di offrire alle banche un reddito annuale sufficiente a ricondurre i conti all’equilibrio. Come risulta da uno studio degli Anni 50 di Pasquale Saraceno, per lo Stato la creazione dell’Iri fu un affare eccellente. Con una seconda operazione l’Iri salvò la Banca d’Italia dal fallimento: prese a suo carico il debito delle banche verso l’Istituto di emissione che s’impegnò a rimborsare anch’esso nel giro di un ventennio. Il cardine della sistemazione beneduciana fu la netta separazione del credito a breve termine dal credito a medio e lungo termine. Prima con un impegno d’onore all’atto del salvataggio, poi con le leggi bancarie del ”36-37, le banche salvate furono costrette a limitare la propria attività al credito a breve, mentre il credito agli investimenti divenne il compito di istituti speciali, come l’Imi fondato nel ”31 o Mediobanca fondata all’indomani della seconda guerra mondiale. Misure analoghe di compartimentalizzazione del credito furono prese in quegli anni negli Stati Uniti con il Glass-Steagall Act. L’abolizione di queste norme in America, come da noi, negli Anni 90 non è estranea alla crisi di questi anni. Il mestiere del banchiere d’investimenti è molto diverso da quello del banchiere commerciale e la tentazione, alimentata anche da un mercato monetario troppo facile, che sia possibile finanziare sul mercato monetario investimenti di medio e lungo periodo è parte della storia di questa crisi. Il secondo insegnamento è che se lo Stato deve intervenire qualcuno dei responsabili deve, come avvenne a Toeplitz, essere sostituito. Il terzo insegnamento è che lo Stato può svolgere una funzione positiva. Certo, osservò Enrico Cuccia, in quegli anni l’Iri «non subì la mainmise da parte della fazione dominante». Sfortunatamente non è stato così nel secondo dopoguerra. Ed è per questo che è così difficile oggi trovare una buona soluzione alla crisi finanziaria. www.fulm.org Stampa Articolo