Il congiuntivo dei Simpson di Giuseppe Antonelli, Il Sole 24 ore, 16/11/2008, pag. 34, 16 novembre 2008
Il congiuntivo dei Simpson - Dai Simpson il congiuntivo è di casa. «Vuoi che io trascorra più tempo con papà?» chiede Homer, riferendosi al decrepito nonno; «ritengo che tu sia troppo piccola per indagare su un tentato omicidio», dice altrove Marge – protettiva – alla piccola Lisa, che nella stessa puntata affermava: «Non sappiamo neanche di chi sia lapistola» (forse invece di «parli come un libro stampato», dovremmo cominciare a dire «parli come un cartone animato»
Il congiuntivo dei Simpson - Dai Simpson il congiuntivo è di casa. «Vuoi che io trascorra più tempo con papà?» chiede Homer, riferendosi al decrepito nonno; «ritengo che tu sia troppo piccola per indagare su un tentato omicidio», dice altrove Marge – protettiva – alla piccola Lisa, che nella stessa puntata affermava: «Non sappiamo neanche di chi sia lapistola» (forse invece di «parli come un libro stampato», dovremmo cominciare a dire «parli come un cartone animato»...). Gli italiani del piccolo schermo, il primo sistematico studio linguistico dedicato all’italiano televisivo, smentisce «gli stereotipi correnti sulla banalizzazione e sull’impoverimento della lingua italiana a opera della televisione» e mostra «soprattutto per alcuni tipi di programmi, una buona tenuta normativa e una discreta ricchezza lessicale». Il congiuntivo, in particolare, tiene bene non solo nei cartoni animati – e più in generale nella tivvù per bambini e ragazzi’ ma anche nelle telecronache sportive, in diverse trasmissioni d’intrattenimento e nel parlato simulato delle fiction. Fondati sulla puntuale analisi di oltre quaranta ore trasmesse tra il 2000 e il 2006, i sei capitoli del volume mettono ordine nella caotica programmazione dei canali generalisti, riorganizzandola per generi, proprio come accade nei canali tematici della televisione satellitare. Una scelta che da un lato ha il vantaggio di sottrarre i testi televisivi alla sequenzialità incongrua del palinsesto, causa principale – insieme con la nevrotica fruizione da telecomando – del ben noto effetto blob (la televisione come babele di lingue, frullatore di stili, incessante ricombinazione di tessere espressive preconfezionate). Dall’altro, ha il merito di rendere adeguatamente la notevole escursione degli esiti linguistici legati ai diversi tipi di programma: «Il trasmesso della televisione di oggi appare fortemente diversificato, mostrando un ventaglio di realizzazioni molto ampio» (di qui il plurale del titolo). L’indagine così impostata dalle due storiche della lingua italiana Gabriella Alfieri e Ilaria Bonomi – e realizzata assieme a una dozzina di giovani e già agguerriti studiosi ”giunge a risultati interessanti e innovativi. Certo, in alcuni casi si tratta di conferme. Così, risulta evidente una volta di più che la necessità di attirare e mantenere l’attenzione del pubblico (di in-trattenerlo, appunto) produce una continua rincorsa all’enfasi linguistica. A quest’atteggiamento non è estranea neanche la lingua dei telegiornali (agghiacciante, atroce, spietato; bagno di sangue, uragano di applausi), anche se gli esempi più tipici possono essere additati nell’eccitazione iperbolica di Simona Ventura (meraviglioso, indimenticabile, infuocatissimo, voi nostro pubblico sovrano) e nella leziosità vezzeggiativa della Clerici (letterina, cucciolina, cosini, giacchina, non vedo la telecamerina). Quando a essere messa in scena è la realtà quotidiana (come nei programmi della De Filippi o della D’Eusanio), quest’aspetto si traduce in una meccanica enfatizzazione dell’oralità: «Sul piano stilistico l’italiano del talk pomeridiano rispetta pienamente icanoni della caratterizzazione teatrale, dalla tipizzazione dei ruoli ai correlativi stereotipi linguistici». Molte di più, tuttavia, le sorprese che attendono il lettore. Ad esempio: si possono trovare frasi più complesse inun monologo di Bonolis a Sanremo – in un passaggio si supera il quarto grado di subordinazione – che nel testo di un telegiornale, in cui raramente si va oltre il secondo grado. (La presenza di un soggiacente testo scritto e la conseguente pianificazione del discorso porta verso una maggiore semplificazione sintattica). Per contro, si registrano più neologismi nei telegiornali (in gran parte parole composte: taglia-spese, canilelager, prestito-ponte) che nelle battute del pur creativo mago Forest, ultimo comico scelto come frontman dalla Gialappa’sband («la moglie è in camera da letto, tutta inghepirata»). E ci sono più tecnicismi in una telecronaca automobilistica (tantissimi quelli inglesi: pit lane, filler, speed trap, safety car, flap) che in un programma di divulgazione scientifica come «Ulisse», «Gaia» o «La macchina del tempo», in cui le parole sono scelte quasi tutte – tra il 70 e il 90%’ attingendo al vocabolario di base, cioè al lessico piùcomunee quotidiano. (L’idea stessa di divulgazione implica la necessità di riformulare, per rendere comprensibili al grande pubblico nozioni e concetti non ovvi). Ancora: se si esclude qualche interferenza fraseologica con l’inglese – con esiti come «vuole scusarci?» invece di «permette»? (would you excuse us?), «datemi cinque minuti» (gimme just five minutes) o «io sono assolutamente convinta» (I’m absolutely convinced) ”, il doppiaggio di molte fiction risulta inappuntabile: anzi, «l’adattamento di Beautiful mostra una chiara tendenza all’innalzamento aulicizzante del linguaggio».«Buona tenuta normativa» anche nei dialoghi della fiction nostrana, in una gamma che va da un massimo di letterarietà in «Incantesimo» a un massimo di aggressività verbale nelle serie d’azione come «La squadra». Nelle fortunatissime serie in costume, invece, gli stessi spettatori dichiarano di avvertire una discrepanza tra il modo di parlare dei personaggi e l’epoca in cui sono ambientate le vicende. E in effetti, bastano le poche puntate del campione analizzato per cogliere qualche anacronismo: una fanciulla solare nel primo-novecentesco «Orgoglio» (l’aggettivo risulta usato in quest’accezione soltanto dagli anni Sessanta), un «gazebo» nella settecentesca «Elisa di Rivombrosa» (la parola è attestata in italiano solo dal 1963).