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 2008  novembre 18 Martedì calendario

DAL NOSTRO INVIATO

ZURIGO – Quando atterrava a Washington per incontrare politici e banchieri, Marcel Ospel si affidava a un’auto dell’Fbi. Da presidente di Ubs, noleggiava un privilegio pubblico americano per la prima banca privata svizzera: l’autista, armato, sfrecciava nei parchi, saliva sui marciapiedi, azzardava sterzate hollywoodiane per far guadagnare tempo (e non solo) al figlio di un pasticciere di Basilea che volle farsi signore di Wall Street.
Succedeva due anni fa, altri tempi. Ora l’Fbi gioca per un’altra squadra. Venerdì scorso un tribunale della Florida ha accusato Raoul Weil, 48 anni, capo mondiale della gestione di patrimoni di Ubs, di «cospirazione» perché avrebbe aiutato 20 mila clienti americani a evadere il fisco. Forse era solo questione di tempo: in giugno Bradley Birkenfeld, un altro ex banchiere del gruppo di Zurigo, è stato arrestato e ha parlato: pur di nascondere redditi all’Internal Revenue Service degli Usa, Birkenfeld era arrivato a contrabbandare diamanti dei clienti nei tubetti di dentifricio. Con i suoi trucchi picareschi, Birkenfeld sostiene di essere stato una rotella nell’ingranaggio da evasione montato in America da Ubs, primo gestore al mondo di patrimoni che nel 2007 raccoglieva 2.700 miliardi di dollari. La banca sostiene che l’ex dipendente ha agito in proprio. Ma al Congresso Usa il «chief financial officer», Mark Branson, si è scusato e ha promesso: «Non forniremo più servizi bancari off-shore ai clienti americani». Nel timore di altri arresti, sia Ubs che altri istituti svizzeri sembrano ora aver sospeso le missioni di molti dei loro dipendenti negli Usa. Il numero due di Ubs a Ginevra, Alain Conte, sarebbe persino stato dissuaso dal fare una vacanza a New York (l’interessato non conferma). La rispettabile Confederazione si sentiva meglio quando aveva gli agenti segreti americani dalla sua. Ma dopo oltre 40 miliardi di dollari di svalutazioni, Ospel e i suoi chauffeur con la pistola alla cintura ormai sono storia: il superbanchiere è dimissionario e chiuso nella sua villa nel cantone di Schwytz, dove le tasse sono anche più basse che nel resto del Paese. Ora Ubs e l’intera economia elvetica sono appese a un filo che all’altro capo tiene in mano la Federal Reserve. Da secoli silente e rocciosa come i suoi monti, la gloriosa piazza elvetica si è risvegliata in una realtà per lei irriconoscibile.
 successo quando a metà ottobre l’Ue e gli Stati Uniti hanno annunciato interventi a tappeto sulle banche e, con orrore, la Svizzera ha scoperto di non poter fare nulla di simile. La globalizzazione era andata troppo oltre: Philipp Hildebrand, il banchiere centrale di Berna che proviene dallo «hedge fund» londinese Moore Capital, nota come il bilancio di Ubs sia quattro volte il prodotto interno lordo elvetico. Ubs potrebbe salvare la Svizzera, ma la Svizzera non può più salvare Ubs. Cresciute a dismisura a Wall Street e nella City nelle attività di banca d’investimento, le stesse che gonfiavano i bonus dei manager a fine anno, Ubs e Crédit Suisse superano ormai di 30 volte il bilancio della banca centrale e di almeno sette volte la taglia della loro economia nazionale. Da loro dipende circa metà del credito alle imprese elvetiche e un settore finanziario che traina l’intero Paese. Ma Crédit Suisse ha rischi a debito per oltre trenta franchi su ogni franco di patrimonio, Ubs è arrivata a 53 e oggi è a 40. La Svizzera si sveglia nella crisi globale scoprendo di essere uno «hedge fund». Più di uno «hedge fund». E non le piace.
 così che la sequenza di eventi delle ultime settimane è suonata come un orologio a cucù che chiama la ritirata dalla globalizzazione, l’arroccamento all’ombra delle parete nord del Cervino. Gli annunci del G7 hanno infatti creato le premesse di una fuga di capitali dagli istituti elvetici, ancora privi di garanzie pubbliche. «A ottobre Ubs ha rischiato di restare senza finanziamenti anche a breve – spiega Hans Geiger dello Swiss Banking Institute ”. La trappola della liquidità si stava richiudendo sulla banca». Aggiunge Konrad Hummler, presidente dei banchieri privati svizzeri e membro del board della banca centrale di Berna: «A quel punto bisognava agire, il tempo stava scadendo per Ubs».
L’istituto smentisce di aver anche solo sfiorato una crisi da mancanza di liquidità, ma l’intervento pubblico annunciato all’improvviso il 22 ottobre è di quelli da terapia intensiva. «Doveva essere grande – dice Geiger ”. Qualunque cosa non lo fosse, non bastava». La Confederazione diventa primo azionista di Ubs al 9% con un’iniezione di capitali sotto forma di obbligazioni convertibili per 6 miliardi di franchi. In più, la banca centrale crea un fondo che assorbirà i titoli «tossici» Usa di Ubs per 60 miliardi di dollari.
Qui entra in fase acuta la crisi d’identità elvetica, e non solo perché si tratta dell’intervento più vasto al mondo in rapporto alla taglia del Paese. C’è dell’altro: per finanziare in bilancio quei rischi sui titoli tossici Usa, la banca centrale svizzera ha bisogno di dollari e deve scendere a patti con la Fed. Biglietti verdi in cambio di franchi come ciambella di salvataggio, ma ovviamente niente affatto gratis. In contropartita ai dollari della Fed, l’amministrazione americana ha alzato la pressione sulle autorità svizzere perché comunichino almeno alcuni dei 20 mila nomi dei clienti americani di Ubs. Martedì scorso sono stati svelati i primi settanta. Nel muro del segreto bancario, pietra di volta del sistema, si sta aprendo una breccia destabilizzante. «Se viene fatta una concessione agli americani, diventerà più difficile negarla a Roma, Parigi o Berlino» avverte Myret Zaki, la giornalista autrice di un vendutissimo libro sul caso Ubs.
Non stupisce dunque che contro i banchieri svizzeri fermenti la rivolta popolare. Thomas Minder, imprenditore svizzero-tedesco a capo dei piccoli azionisti di Ubs e Crédit Suisse, infuria. «Il segreto bancario è un’istituzione come Guglielmo Tell, ma i nostri finanzieri sono voluti diventare troppo internazionali – accusa ”. Per avidità hanno perso la modestia, i vertici delle banche si sono riempiti di uomini che neanche parlano tedesco». Non che i supermanager si arrendano facilmente. Oswald Grübel, l’orfano di guerra fuggito dalla Ddr a dieci anni, entrato in Crédit Suisse a 17 fino a guidarla fra il 2003 e il 2007, frena tutti: «La Svizzera è come una famiglia. Chi assicura il reddito è sempre il più detestato – dice – perché gli altri vorrebbero essere indipendenti». Ma stavolta la psicologia forse non basterà: la Commissione federale delle banche, minuscolo regolatore di istituti colossali, per prudenza esige ormai requisiti di capitale elevatissimi che renderanno sempre meno redditizio l’«investment banking» fatto da Wall Street. Ubs e Crédit Suisse stanno tagliando gli staff a New York e nella City, tornano a concentrarsi sulla secolare gestione di patrimoni imperniata su Zurigo. Lì, sulla Bahnhofstrasse, la sede Art Déco di Ubs è l’emblema della solidità: sei pesanti colonne, una vasta foto del Cervino, l’orgoglioso stemma a tre chiavi incrociate simbolo di fiducia, sicurezza e discrezione. Ma può la discrezione resistere, quando l’orgoglio è finito in mille pezzi?
La parabola
L’ex top manager Ospel viaggiava su un’auto Fbi. Ora si è nascosto nello Schwytz
Federico Fubini