Sergio Romano, Corriere della Sera 16/11/2008, 16 novembre 2008
Il monito del presidente russo agli Stati Uniti (stanzieremo missili Iskander nell’enclave di Kaliningrad se costruirete una base anti-missilistica in Polonia) e l’incontro di Nizza fra Dmitrij Medvedev e i leader dell’Ue hanno oscurato altri aspetti della Russia d’oggi
Il monito del presidente russo agli Stati Uniti (stanzieremo missili Iskander nell’enclave di Kaliningrad se costruirete una base anti-missilistica in Polonia) e l’incontro di Nizza fra Dmitrij Medvedev e i leader dell’Ue hanno oscurato altri aspetti della Russia d’oggi. Abbiamo prestato meno attenzione, per esempio, al fatto che la crisi del credito e la brusca caduta del prezzo del petrolio hanno duramente colpito l’economia russa. Non è la crisi del 1998, quando Mosca, capitale di un Paese in bancarotta, mi sembrò una città dimessa e nei suoi quartieri notturni quasi spettrale. La situazione da allora è alquanto cambiata. Lo Stato è forte, il dominio degli oligarchi è stato spezzato, i debiti esteri sono stati pagati, il prodotto interno lordo è quasi sette volte più grande di quello del 1999, i due fondi sovrani creati dalla presidenza Putin sono ancora pieni di denaro, il traffico è caotico, i ristoranti sono pieni di avventori, e lo sciame degli uomini d’affari stranieri continua a ronzare intorno ai centri del potere economico e finanziario. Ma i sintomi della crisi non sono per questo meno presenti. Migliaia di ragazzi prodigio, assunti per gestire gli estrosi portafogli delle banche e dei fondi d’investimento, sono stati licenziati. Parecchie aziende hanno comunicato ai loro dipendenti che potranno continuare a lavorare ancora per un mese, ma senza stipendio. Il mercato azionario ha perso dall’inizio dell’anno il 66% del suo valore. Molti capitali stranieri (70 miliardi di dollari, secondo alcune stime, addirittura 300 secondo altre) hanno lasciato il Paese. La Borsa ha chiuso spesso i battenti per evitare che le quotazioni andassero a picco. Il rublo è stato deprezzato del 5% e la Banca centrale russa usa le proprie riserve per addolcirne la caduta. La situazione, ripeto, non è quella del ’98, ma se il prezzo del barile si attesta sui 50 dollari la Russia sarà costretta a rivedere interamente i propri piani di sviluppo. Qualche osservatore, tuttavia, pensa che la crisi possa essere provvidenziale. Nel suo ufficio di via Tverskaja (una palazzina interamente restaurata dove, varcata la soglia, potreste essere a Londra o a New York) Dmitrij Trenin, vice direttore del Centro Carnegie di Mosca, mi ricorda che la bancarotta del 1998 ebbe il benefico effetto di raddrizzare in parte gli squilibri dell’economia nazionale. Anziché vivere pressoché esclusivamente dell’esportazione di risorse naturali, la Russia cominciò a sviluppare il suo mercato interno. Il deprezzamento del rublo e la diminuzione delle importazioni favorì la nascita di piccole e medie aziende che riempirono con i loro prodotti i negozi di questo immenso Paese. Cominciò così ad apparire ciò che maggiormente mancava alla società russa: una rete di imprese diffuse sul territorio nazionale e un ceto d’imprenditori. Oggi, in una situazione resa migliore dall’abbondanza di denaro pubblico, potrebbe accadere, su scala più grande, la stessa cosa. Trenin è russo, anche se parla inglese con un impeccabile accento americano, e sa che la pianta della democrazia ha qui radici corte e fragili. La gente non crea associazioni, non si coalizza per risolvere un problema o proclamare un diritto. Preferisce attendere brontolando che la soluzione scenda dall’alto e mettere il proprio futuro nelle mani dello Stato onnipotente. Ma la crescita della cultura industriale potrebbe creare le condizioni per la nascita di una Russia diversa dove gli interessi imprenditoriali possano favorire la nascita di interessi e responsabilità civili. Credo che Trenin abbia ragione e aggiungo che i vantaggi della cattiva congiuntura sarebbero ancora maggiori se la crisi completasse il lavoro fatto da Vladimir Putin negli anni della sua presidenza. Putin ha avuto il merito di piegare gli oligarchi alla volontà dello Stato. Qualcuno è fuggito, uno (Michail Khodarkovskij, forse il migliore) è finito in prigione, e quelli rimasti in patria hanno abbassato le ali. Ma non hanno rinunciato al loro capitalismo sfacciato, esibizionista e sciupone. La crisi li ha duramente colpiti e ha costretto uno di essi (Oleg Deripaska) e vendere beni per un miliardo di dollari. Continueranno a essere ricchi, ma è lecito sperare che non saranno più i boiardi della Russia moderna. E’ un errore pensare che i progressi della democrazia in Russia dipendano dall’importazione di formule e strumenti occidentali. Il Paese ha soprattutto bisogno di piccoli e medi imprenditori, negozianti, liberi professionisti, e del tempo necessario perché i mutamenti della società producano i mutamenti della politica. Dmitrij Medvedev, successore di Putin al vertice dello Stato, sembra condividere questa analisi. Il suo discorso sulla stato della Russia, qualche giorno fa, è stato citato dalla stampa internazionale soprattutto per il discusso ammonimento a Washington sulla base polacca e per la decisione di rispondere ai missili con i missili. Ma contiene altre indicazioni a cui sarebbe stato utile dedicare maggiore attenzione. Contiene ad esempio una impeccabile descrizione della macchina statale russa: «Abbiamo un apparato statale che è al tempo stesso il più grande datore di lavoro, il più grande editore, il miglior produttore di beni, il tribunale di se stesso; e ha persino il suo partito, il suo popolo». Questo Paese nel Paese, secondo Medveved, diffida della libera impresa come vent’anni fa, spaventa il mondo degli affari perché non facciano le cose sbagliate, controlla i mezzi d’informazione perché non dicano le cose sbagliate e interferisce nelle elezioni affinché gli elettori non votino per la persona sbagliata. E’ un sistema inefficace che tale rimarrà fino a quando le istituzioni democratiche non avranno cominciato a radicarsi in tutti gli strati sociali. Per raggiungere l’obiettivo Medvedev ha avanzato una serie di proposte. I partiti che non oltrepassano la soglia di sbarramento dovranno avere in Parlamento almeno un diritto di tribuna. I governatori provinciali (eletti dal popolo all’epoca di Eltsin e nominati dal Cremlino all’epoca di Putin) saranno scelti dalle maggioranze delle assemblee regionali. Le procedure per la presentazione delle liste verranno semplificate e alleggerite. Internet e la televisione digitale allargheranno l’area del dibattito politico e della libertà di espressione. Queste misure non saranno efficaci, tuttavia, se il Paese non riuscirà a vincere la sua battaglia contro la corruzione e quello che Medvedev definisce «nichilismo legale». La corruzione è una peste che sta contaminando l’intera società russa. Chiunque goda di una qualche autorità - il vigile che infligge una multa, il custode di una piscina, l’infermiera di un ospedale, il preside di una scuola, il responsabile amministrativo di una università e, naturalmente, il funzionario dello Stato a cui spetta rilasciare autorizzazioni e licenze - può trasformare in denaro il suo piccolo o grande potere. La tradizione burocratica di uno Stato in cui è implicitamente vietato tutto ciò che non è esplicitamente permesso, moltiplica le occasioni in cui occorre, per realizzare le proprie ambizioni e soddisfare i propri bisogni, passare attraverso una forca caudina. Secondo i calcoli di un istituto di ricerca, la somma delle tangenti e dei pizzi ammonterebbe ogni anno a 260 miliardi di euro, vale a dire 1.800 euro per ogni cittadino russo. Il problema non è soltanto post-sovietico. Una delle prime decisioni di Gorbaciov, dopo la sua elezione alla segreteria generale del partito comunista nel marzo del 1985, fu quella di lanciare una crociata contro la corruzione dell’apparato statale. Vi furono casi clamorosi, come quello di un sottosegretario al ministero del Commercio estero arrestato e processato, ma il fervore purificatore si spense nel giro di qualche mese. Di tutte le riforme questa sarà la più difficile. Per governare un immenso territorio la Russia (chiunque sieda al Cremlino) ha bisogno di una immensa burocrazia; ed è, in ultima analisi, prigioniera dei suoi servitori. Ma l’insistenza con cui Medvedev ritorna su questo problema sembra dimostrare che vuole farne il punto principale del suo ordine del giorno. Non tutti, naturalmente, credono alle intenzioni del presidente. Qualche esponente della opposizione democratica (quella che non è riuscita a raccogliere le firme necessarie per partecipare alle elezioni o superare la soglia di sbarramento) pensa che le riforme, la lotta contro la corruzione, le belle parole e persino i missili a Kaliningrad, fossero nel discorso di Medvedev sullo stato della Russia soltanto gli specchietti per le allodole con cui il presidente ha distratto gli ascoltatori dallo scopo principale del suo intervento: l’emendamento costituzionale che allungherà il mandato presidenziale (da quattro a sei anni) e la durata della legislatura (da quattro a cinque). Sarebbero queste le riforme che interessano Putin e che gli permetterebbero addirittura di tornare al Cremlino, con nuove elezioni, non appena il percorso della riforma costituzionale sarà stato completato. E’ possibile, naturalmente. Ma è anche possibile che Putin e Medvedev stiano recitando due parti complementari. Il primo ha restaurato l’autorità dello Stato e dovrà pilotare il Paese attraverso la crisi economica e finanziaria dei prossimi mesi. Il secondo vuole avviare la Russia sulla strada della democrazia. Il primo dovrà modernizzare l’economia, il secondo dovrà modernizzare la società e le istituzioni. Gli Stati Uniti e l’Europa non possono risolvere i problemi russi dall’esterno, ma possono almeno evitare di renderli più complicati, come ha fatto l’America di Bush nel corso degli ultimi anni. In questa prospettiva la questione della base polacca è cruciale. Stretta fra la crisi economico-finanziaria e quella che viene considerata a Mosca una provocazione americana, la Russia potrebbe rifugiarsi nel nazionalismo. E’ questo che dovremmo cercare di evitare. Un Paese ansioso di modernizzarsi ha bisogno dell’Occidente ed è pronto a tenere conto delle sue esigenze. Un Paese nazionalista preferisce l’isolamento perché gli permette di meglio controllare la società e prepararsi allo scontro.