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 2008  novembre 16 Domenica calendario

WASHINGTON

Il mondo è già cambiato. E non solo perché l’America ha eletto presidente Barack Obama. Per rendersene conto, bastava osservare l’arrivo al Portico Nord della Casa Bianca, venerdì sera, di venti capi di Stato e di governo venti, per la cena che ha aperto il G20, primo super-vertice dell’era globale. Non era mai successo, negli oltre 200 anni di onorata storia dell’edificio.
Dimenticate la vecchia e claudicante aristocrazia del G7/G8. Per amore e per forza, complice la paura dell’abisso, il club dei nuovi potenti ha aggiunto posti a tavola anche per Cina, India, Brasile, Arabia Saudita, Corea del Sud e via continuando.
Il protocollo della White House se l’è cavata a meraviglia. Ma ci sono pur sempre voluti ben 82 minuti, lo spazio di quasi un’intera partita di calcio, per espletare la cerimonia degli arrivi con l’apparizione della limousine del presidente brasiliano, Luiz Ignacio Lula da Silva. Per la cronaca, c’erano altre due cene che procedevano in contemporanea a quella principale: quelle dei ministri del Tesoro e degli sherpa.
Il segnale gastro-strategico dei nuovi equilibri? Il placement: con George W. Bush seduto tra il cinese Hu Jintao e lo stesso Lula, Nicolas Sarkozy (vero architetto dell’ incontro) a due posti dal presidente americano e il russo Dmitry Medvedev un po’ distante, a fianco dell’argentina Christina Fernandez de Kirchner. Il menu prevedeva quaglia affumicata su mousse di mela cotogna, costolette di agnello al timo e crostini con brie del Vermont, torta di pere, un vino per ogni portata. Più sobrio, quello offerto ai senzatetto cento metri più in là, sul prato del Lafayette Park, nel People’s Banquet, organizzato dai militanti di organizzazioni come Global Justice Action o Code Pink for Peace: fagioli col riso, biscotti, sandwiches e bottiglie d’acqua.
Tornando alla cena principale, i partecipanti hanno apprezzato e non sono stati segnalati malesseri di sorta. Anzi, forse qualcuno ha esagerato con le porzioni: come lo spagnolo Zapatero, che alle 6.30 del mattino si è presentato in perfetta tenuta da fitness nella palestra dell’Hotel Mandarin Oriental, per una corsetta sul tapis roulant. Ma non era molto esperto del sistema computerizzato dell’attrezzo e un collega italiano gli ha dato una mano a programmarlo.
Alla stessa ora, Nicolas Sarkozy, sceso allo storico Willard, l’albergo dove George Washington riceveva i questuanti nella lobby (da cui il termine lobbysti), è invece andato a correre sul Mall, tra il Lincoln Memorial e Capitol Hill.
Certo non tutto è filato liscio. Ieri mattina al National Building Museum, dove si sono svolti i lavori del vertice, mentre i leader rientravano per cominciare la sessione di lavoro dopo la tradizionale foto di gruppo, è giunta trafelata la presidentessa argentina.
Era in ritardo e aveva perso lo scatto. Angela Merkel, tutta puntualità prussiana, ha fatto una smorfia. Ma non ci sono stati santi: l’intero gruppo è stato riaccompagnato davanti ai fotografi per rifare la storica istantanea, questa volta con Christina Kirchner in tutto il suo fulgore latino- americano.
Certo, il posto prescelto per il vertice un simbolismo piuttosto in tema ce l’aveva. Prima di diventare il bellissimo museo d’architettura che è, serviva infatti all’assistenza dei reduci della Guerra Civile: insomma, vi si curavano gli effetti di un disastro. Un po’ sul modello di quanto cerca di fare il G20. Che ovviamente, ha un problema di dimensioni: se ne è accorto George W. Bush, pronto al termine del lunghissimo giro di tavola a ringraziare i protagonisti degli interventi più brevi.
Dietro il vertice ufficiale, quello vero. Gestito discretamente da Madeleine Albright, l’ex segretario di Stato, inviata speciale del convitato di pietra, il presidente-eletto Barack Obama. Madame Secretary, l’appellativo da usare quando si parla con lei, ha visto tutte le delegazioni: in alcuni casi i leader, in altri i ministri o gli sherpa. Per tutti lo stesso messaggio: dal 20 gennaio, l’America vuol tornare a indicare la strada.
Paolo Valentino