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 2008  novembre 16 Domenica calendario

Gregorio De Felice sostiene che, favorendo l’elevatissimo ricorso al debito da parte delle famiglie, gli Usa hanno alimentato i consumi del ceto medio, i cui redditi ristagnavano

Gregorio De Felice sostiene che, favorendo l’elevatissimo ricorso al debito da parte delle famiglie, gli Usa hanno alimentato i consumi del ceto medio, i cui redditi ristagnavano. Il governo ha così salvaguardato il contratto sociale, insidiato da una spesa militare crescente, dall’arricchimento dei già ricchissimi e dall’affievolirsi delle speranze degli outsiders. De Felice guida il servizio studi di Intesa Sanpaolo, e prima aveva diretto quello della laicissima Comit. Ascoltandolo l’altro ieri a Milano, al convegno degli economisti d’impresa in memoria di Franco Momigliano, mi è venuto spontaneo il paragone con l’Italia: per poter contrastare il comunismo durante la guerra fredda, l’Italia ha comprato la pace sociale aumentando la spesa pubblica e indebitando lo Stato; per poter muovere guerra al terrorismo, gli Usa hanno comprato consenso interno sostenendo la spesa privata con il credito bancario. Naturalmente, gli obiettivi politici alti nascondono spesso anche utilità meno nobili. Ma se vogliamo ragionare dei sistemi non useremo le patologie di ciascuno per delegittimare politici ed economisti come categorie, non foss’altro perché i grilli parlanti non sono mancati da entrambe le parti. A questo, in fondo, ci invitano libri come l’ultimo di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi ( La crisi. Riuscirà la politica a salvare il mondo?, il Saggiatore, Milano, 12 euro) quando esorta a capire che cosa non ha funzionato e a evitare gli slogan contro il capitalismo che resta il miglior sistema economico inventato dall’uomo, aggiungerei: finora. Nel loro brillante pamph-let, Alesina e Giavazzi imputano al populismo di una politica che voleva dare la casa a tutti l’eccesso di debito dell’economia americana e alla cattura del regolatore da parte dei regolati l’aver permesso alle banche di prestare troppo in relazione ai capitali propri. Brutalmente riassunta, la loro terapia è: più libero mercato, non meno mercato; più concorrenza, non più Stato. Non so se la ricetta basti al tempo del capitalismo plurale. E non vorrei che il liberismo debba essere salvato dai liberisti più estremi se vogliamo che continui a essere un antidoto contro lo statalismo (che non è l’economia sociale di mercato, ma la sua degenerazione). Ma per farcela il pensiero liberista dovrebbe chiarire tre punti storici. 1) Per evitare il populismo dei debiti di Clinton e, più ancora, di Bush salvando tuttavia il contratto sociale, base della democrazia, si sarebbero dovute tagliare le unghie al 10% della popolazione, che si è aggiudicata il 73% della crescita, ed evitare la guerra in Iraq oppure c’era una terza via, e se sì, quale? 2) Se poi le banche, costrette dal regolatore, avessero riproporzionato i prestiti ai capitali propri, ne avrebbero concessi molti meno. Ma allora che ne sarebbe stato della crescita? 3) Se infine il mercato finanziario è quello che più si avvicina al mercato perfetto per estensione, internazionalizzazione, innovazione e numero di operatori su scala mondiale, come mai non è riuscito a segnalare il rischio di controparte con ciò fallendo nella sua funzione precipua che è quella di fare i prezzi, principale fonte di informazione per gli operatori? ❜❜ Quando l’Italia comprò la pace sociale aumentando la spesa pubblica mmucchetti@corriere.it