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 2008  novembre 20 Giovedì calendario

L’espresso, 20/11/2008. L’onda nera che sta sommergendo il Nord Italia ha rotto gli argini a Torino, nella disordinata periferia che si allunga verso Venaria Reale

L’espresso, 20/11/2008. L’onda nera che sta sommergendo il Nord Italia ha rotto gli argini a Torino, nella disordinata periferia che si allunga verso Venaria Reale. In un’antica fabbrica ristrutturata secondo i canoni dei migliori recuperi industriali, lunedì 10 novembre si è tenuta la prima assemblea sindacale nei dieci anni di vita del centro ricerche Motorola. Una novità che nessuno avrebbe voluto vivere: il gigante americano dei cellulari ha dichiarato 333 esuberi su 333 dipendenti, tutti ingegneri o supertecnici che hanno sviluppato gli ultimi telefonini dell’azienda e che potevano vantare stipendi minimi da 2 mila euro netti al mese. E che, per lavorare in una delle più rinomate aziende tecnologiche del mondo, dopo gli studi al Politecnico di Torino si erano fermati in città arrivando spesso dal Mezzogiorno, come gli operai di un tempo. Ora però la divisione cellulari di Motorola perde soldi e la recessione non ammette risposte tardive. L’azienda ha deciso di chiudere il cosiddetto Centro di eccellenza torinese e le altre strutture gemelle in Europa. Tutti a casa, tutto finito. La notizia è piombata come un macigno su un città impegnata a fare i conti con la crisi che sta avvolgendo l’Europa e gli Stati Uniti. Giovedì 6 novembre, nelle stanze del municipio, sono sfilati i sindacati dei metalmeccanici per snocciolare le cifre e dar voce all’ansia dei lavoratori. "Negli ultimi due giorni, 79 aziende ci hanno comunicato l’avvio della cassa integrazione, e questo solo a Torino", ha detto Giorgio Airaudo, segretario della Fiom. La fiammata, che gonfierà le statistiche sulla cassa integrazione a partire dal mese di ottobre, ha già un caso simbolo: la Graziano Trasmissioni di Cascine Vica, prima cintura cittadina, uno stabilimento dove lavorano circa 800 persone nella produzione di ingranaggi per macchine agricole e camion. A inizio ottobre i sindacati avevano firmato un accordo concedendo straordinari e part-time a fronte dell’assunzione di cento interinali, in buona parte immigrati. Dopo pochi giorni, la doccia fredda: gli ordini sono crollati ed è stata annunciata la cassa per 150 dipendenti. E gli anziani hanno storto la bocca: "Quei giovani era meglio non prenderli". Torino è soprattutto Fiat e l’automobile, si sa, fa da termometro al resto dell’economia. I dati, tuttavia, mostrano che il problema è purtroppo ormai generalizzato. Le linee per la produzione dei camion Iveco si sono fermate per la prima volta in 13 anni; quelle dei trattori Cnh dopo 20; solo un terzo degli oltre 23 mila operai e impiegati che nella provincia di Torino sono in cassa lavorano per la Fiat, guidata oggi da Sergio Marchionne. Basta poi spostarsi nella pianura Padana verso est, per verificare come l’intero Nord stia soffrendo duramente e come la recessione minacci anche i settori tradizionali. FUGA MULTINAZIONALE In Lombardia zoppica l’importante industria chimica, nonostante la presenza di grandi multinazionali: la francese Rhodia ha deciso di trasferire all’estero l’attività svolta oggi nello stabilimento di Ceriano Laghetto, vicino a Monza, dove lavorano 230 dipendenti. A Varese tremano i lavoratori del colosso degli elettrodomestici Whirlpool, che ha preannunciato mille esuberi in Europa, senza indicare dove farà i tagli. In Veneto, invece, la concorrente Electrolux, dopo aver abbandonato lo stabilimento fiorentino di Scandicci per concentrare la produzione di frigoriferi a Susegana, ha tagliato altri 300 posti su 1.450 nella stessa fabbrica trevigiana. Sempre in Veneto, la regione del legame indissolubile tra lavoro e famiglia, dei piccoli imprenditori partiti dal laboratorio sotto casa, ma anche della delocalizzazione a tappe forzate da parte di aziende storiche come Benetton e Lotto, i timori sulle prospettive delle piccole aziende sono sempre più forti. Bruno Anastasia di Veneto Lavoro pronostica "un alto livello di licenziamenti nelle piccole imprese", mentre quelle grandi hanno già iniziato. E per stare sui settori più tipici, secondo i dati Confindustria, la produzione è calata del 17 per cento nel distretto bellunese degli occhiali, mentre nel vicentino accusano ribassi del 15 per cento le aziende che lavorano pelli e cuoio e del 10 quelle che operano nell’oreficeria. Numeri che non inducono all’ottimismo, anche se Giuseppe Bortolussi, direttore dell’Associazione artigiani di Mestre, cerca di iniettare fiducia: "Nel 2009 farà freddo ma non congeleremo. Magari crolleranno aziende già in difficoltà ma le migliori diventeranno ancora più forti". MENO INDUSTRIA PER TUTTI Il timore che serpeggia fra gli esperti, in effetti, è che la crisi possa dare il colpo definitivo a molte imprese o a interi settori che già attraversavano acque cattive, da alcuni comparti della meccanica all’industria tessile, dai distretti dell’arredamento alla piccola nicchia veneziana del vetro artistico di Murano, insidiata dagli artigiani low cost dell’Asia. "Dobbiamo attenderci una nuova contrazione della base industriale italiana", prevede Giuseppe Berta, storico dell’industria e autore di un recente libro di successo quale ’Nord - Dal triangolo industriale alla megalopoli padana’. Fino agli anni Novanta, dice Berta, l’immagine dell’industria italiana era quella di una clessidra: in alto un certo numero di grandi gruppi privati e pubblici, a metà una quota ridotta di medie aziende e in basso una vastità di imprese piccole e piccolissime. Già oggi però i big sono pochissimi, mentre è cresciuto considerevolmente il numero delle industrie di medie dimensioni che hanno tentato la via dell’export. Chi è rimasto in mezzo al guado, però, rischia di affondare: "Ritengo che soffriranno soprattutto le aziende con un’eccessiva intensità di lavoro, con addetti meno qualificati e che non sono riuscite a posizionarsi in una fascia alta", spiega Berta. Pochi azzardano previsioni certe su chi non ce la farà. Certo è, però, che il numero di aziende a rischio chiusura è elevato, forse incalcolabile: "Abbiamo fatto un’analisi sui bilanci delle imprese piemontesi con più di centomila euro di fatturato: è emerso che una su cinque non ha superato la crisi strisciante che si è protratta fino al 2005", dice Andrea Bairati, assessore all’Industria in Piemonte. TREMANO LE MACCHINE Accanto a queste fragilità, c’è chi sottolinea i punti forti delle imprese. Uno di questi è il surplus manifatturiero (la differenza tra esportazioni e importazioni di prodotti finiti) dell’Italia che nei dodici mesi al settembre 2008 aveva raggiunto i 60 miliardi, il 50 per cento in più dello stesso dato rilevato a inizio 2007. "Questo exploit indica che, oggi, molte imprese hanno una sufficiente capienza polmonare per stare sott’acqua qualche tempo. Se però la crisi, in mancanza di un piano europeo di rilancio degli investimenti, dovesse protrarsi per un paio d’anni, molte soffriranno", dice l’economista Marco Fortis, uno dei più noti studiosi dei distretti industriali italiani. A rischio sono soprattutto i fornitori di seconda fascia delle aziende più grandi e, a sorpresa, Fortis indica uno dei settori chiave della manifattura nazionale: la meccanica. "Bisogna avere ben chiaro", dice, "che abbiamo di fronte una crisi di domanda drammatica, che colpirà gli stessi colossi dell’industria tedesca, tradizionali acquirenti delle nostre macchine". LA FINE DEI CARROZZIERI A Torino i sindacati temono, ad esempio, che la crisi renda ancor più difficile ricostruire il futuro di quei grandi carrozzieri che si erano specializzati in produzioni di nicchia. In agonia ormai da anni la Bertone, da tempo anche 1.400 dipendenti della Pininfarina lavorano in media una settimana al mese. I tre impianti dell’azienda erano stati programmati per assemblare oltre 200 vetture al giorno: si fermano a circa un quarto. Per il futuro l’unica speranza è lo sviluppo dell’auto elettrica, di cui si parlerà a fine 2010. Venerdì 7 novembre, al termine dell’incontro con i vertici dell’azienda, guidata oggi da Paolo Pininfarina, alcuni operai si sono ritrovati fuori per manifestare il loro sgomento: "Da un anno ormai portiamo a casa al massimo 750-800 euro al mese, senza maturare ferie o tredicesima. E consideri che tra di noi ci sono coppie sposate che lavorano, marito e moglie, nella stessa fabbrica", racconta uno di loro. COME DURA LA SETA Ad Albino, un paesino a pochi chilometri da Bergamo al centro della Val Seriana, gli operai del cotonificio Honegger si preparano a un Natale amaro. L’azienda, con all’attivo più di cent’anni di attività, nei giorni scorsi ha annunciato esuberi per 240 dipendenti su un totale di 453. Una decisione necessaria, dice, per superare una crisi che per il tessile italiano assomiglia sempre di più alla goccia che farà traboccare il vaso. Un settore già in difficoltà da tempo, che negli ultimi anni ha già dovuto superare diversi momenti critici, e che ci è riuscito solo grazie all’intraprendenza e alla versatilità di alcune imprese. Ma oggi la situazione è diversa. La recessione è il colpo di grazia per quelle realtà che faticavano a stare a galla. Come la bergamasca Reggiani, l’azienda dove ha mosso i primi passi Savino Pezzotta, che a fine ottobre ha comunicato la chiusura dopo oltre un secolo, o come la Tessival di Fiorano al Serio, che ha annunciato di voler cessare l’attività. Anche a Brescia, purtroppo, la situazione non è migliore: le ore di cassa integrazione ordinaria delle aziende impegnate nel tessile sono aumentate del 200 per cento rispetto al 2007. Ogni giorno il telefono dei sindacati squilla e salta fuori il nome di una nuova azienda in crisi. A Como, dove il tessile da sempre è una delle punte di diamante dell’industria, in due settimane sono state 36 le aziende che sono ricorse alla cassa, su un totale di 90. E in questo caso ci sono anche big come la Ratti, storico colosso della seta, che ha messo in cassa integrazione 567 dipendenti. Per sottolineare ulteriormente la gravità della situazione basta dare un’occhiata al calendario: per le industrie del settore l’ultimo trimestre dell’anno è solitamente quello su cui si punta maggiormente, una sorta di rete di salvataggio per margini e fatturato in corrispondenza del Natale: "La situazione non è frutto dell’imprevidenza di un singolo imprenditore, ma è una crisi globale che coinvolge tutti, nessuno escluso": è l’opinione di Ambrogio Taborelli, presidente della Confindustria di Como e titolare di un’azienda che produce seta. PICCOLI A RISCHIO USURA Un altro aspetto della crisi è la difficoltà di molte imprese indebitate a far fronte alle scadenze dei debiti mentre i ricavi si contraggono. La Confindustria di Vicenza ha fatto un sondaggio fra mille aderenti, scoprendo che il 62 per cento del campione dichiara "un inasprimento delle condizioni applicate dalle banche". Per questo dal numero uno degli industriali veneti, Andrea Riello, arriva la richiesta di aiuti: "Abbiamo dato tanto al Paese, ora comprenda le nostre esigenze: stiamo attraversando un periodo di grande difficoltà". Per l’elevata presenza di imprese anche piccolissime, le meno strutturate per reagire alla stretta creditizia, il Veneto si ritrova infatti in prima fila fra coloro che tuonano contro le banche. Dice il presidente della Confartigianato di Treviso, Mario Pozza: "Faremo una lista di buoni e cattivi e diremo ai nostri associati da chi andare", ripete. Sui timori, forse, pesa il rischio di andare incontro a fenomeni di usura. SI SALVI CHI PU Chi supererà meglio la crisi? Gli economisti forniscono molteplici risposte. Secondo Fortis ce la possono fare quelle imprese, soprattutto medie, che hanno già sviluppato una presenza all’estero e che hanno alle spalle una famiglia con un patrimonio robusto. Per Berta, invece, la chiave è la conoscenza: "Non basta interpretare correttamente la direzione nella quale si muoverà la domanda, occorre anticiparla", spiega l’economista. L’esempio, ancora una volta, viene dal mondo dell’auto. "L’automobile", conclude Berta, "è certamente un’industria a elevata specializzazione. Eppure una recente ricerca ha calcolato che il 64 per cento degli addetti ha soltanto la scuola dell’obbligo e che appena il 6 per cento è laureato: sono numeri troppo bassi per permettere a queste aziende di essere all’avanguardia".