Financial Times, 14 novembre 2008, 14 novembre 2008
L’Islanda è oggi uno dei pochissimi paesi del mondo per i quali si può dire, senza esagerare, che sta avvenendo una catastrofe finanziaria
L’Islanda è oggi uno dei pochissimi paesi del mondo per i quali si può dire, senza esagerare, che sta avvenendo una catastrofe finanziaria. Il nove ottobre il primo ministro Geir Haard è dovuto andare in televisione per spiegare ai suoi 300 mila cittadini che la loro nazione è alla bancarotta e il governo ha deciso di prendere il controllo delle banche per difendere i loro risparmi. ”Compatrioti – ha detto Haard nel suo discorso – se mai c’è stato un momento in cui la nostra nazione islandese ha avuto bisogno di alzarsi compatta e mostrare il proprio coraggio contro le avversità, quel momento è questo. Vi invito tutti a custodire ciò che avete di più caro, per proteggere quei valori che sopravviveranno quando finirà la tempesta che ora comincia. Vi chiedo di dialogare all’interno delle vostre famiglie, di non permettere che la paura prenda il sopravvento, anche se le previsioni sono terribili per molti di noi. Dobbiamo spiegare ai nostri figli che il mondo non è sull’orlo di un precipizio, dobbiamo tirare fuori il coraggio di guardare al futuro. L’ottimismo, il coraggio e la solidarietà islandesi saranno le nostre armi mentre attraverseremo la tempesta. Dio benedica l’Islanda”. Nelle ore che hanno seguito il discorso presidenziale la gravità della crisi ha iniziato a manifestarsi. Le carte di credito degli islandesi all’estero iniziavano a venire rifiutate. Chi, in Islanda, voleva comprare moneta straniera non poteva più farlo. Un uomo ha atteso sei ore nella propria banca per riavere indietro in contanti un milione di corone, i risparmi di una vita. L’isola negli ultimi 10 anni ha vissuto un’attività immobiliare imponente, che ha fatto crescere di un terzo la periferia di Reykjiavik. Per comprare le case, per arredarle, per procurarsi tutti quei beni che fino a pochi anni prima non avevano gli islandesi si sono indebitati oltre misura. L’Islanda, però, è l’unico paese al mondo che indicizza i suoi prestiti all’inflazione, oltre ad applicare un alto tasso di interesse. Un prestito di 1.000 corone, ad esempio, diventava di 1.050 corone a fine anno se l’inflazione era del 5%. Ora che l’inflazione è al 20%, un prestito da 1.000 corone diventa da 1.200. La situazione ora è drammatica. I redditi sono crollati del 60%, il costo della vita è balzato in avanti all’improvviso. E pensare che per gli islandesi i tempi d’oro sarebbero dovuti essere questi. Fondata dalle tribù vichinghe verso il 900 d.c. l’Islanda non ha vissuto il Rinascimento, la rivoluzione industriale e tutte le altre ere che hanno fatto la storia dell’Europa. Molti islandesi, nei secoli, se ne sono andati, quelli che sono rimasti hanno invece maturato una testardaggine che è diventata un tratto di carattere nazionale di cui il popolo islandese va fiero. La testardaggine di fare del proprio meglio in lavori anche piccoli, di custodire i valori della famiglia, di accontentarsi di poco. Una cocciutaggine che è anche nazionalismo e orgoglio di indipendenza dal resto del mondo. Per questo gli islandesi ora non riescono ad accettare non tanto la catastrofe finanziaria in sé, ma soprattutto il fatto che il problema arriva da un piccolo gruppo di loro (i gestori dei fondi) che se ne è andato a conquistare il mondo finanziario e se n’è tornato sconfitto e umiliato. Non solo il Paese è alle soglie della bancarotta. Ma, ed è peggio, la sua stessa reputazione all’estero è ridicolizzata. Le banche islandesi si sono indebitate per 250 mila dollari per ogni cittadino del Paese, il debito pubblico ha raggiunto il 3005% del Pil, è impossibile oggi per la banca centrale salvare Landsbanki, Kaupthing e Glitnir, i tre istituti in bancarotta. L’aiuto arriva dalla Gran Bretagna, soprattutto perché l’implosione islandese manda in fumo 8 miliardi di sterline depositate dagli inglesi nell’isola del Nord. I Viking Raiders, i cavalieri dei fondi, oggi sono quasi tutti andati via. Il governo ha assicurato che ci sono abbastanza soldi per comprare cose essenziali come petrolio, grano, medicine per l’inverno. ”Siamo partiti con due mani vuote” recita un detto irlandese. Chi l’ha inventato non si sarebbe mai aspettato che si sarebbe adattato così bene al 2008, quando la nazione si trova a iniziare il processo di ricostruzione della sua economia e, cosa che la preoccupa più di ogni altra, deve ricostruire la propria reputazione.