Vittorio Zucconi, L’aquila e il pollo fritto Mondadori 2008, 15 novembre 2008
«John Fitzgerald Kennedy fu il primo presidente americano, il primo uomo politico della storia, a sedurre una nazione e a conquistare il potere cavalcando un raggio di luce
«John Fitzgerald Kennedy fu il primo presidente americano, il primo uomo politico della storia, a sedurre una nazione e a conquistare il potere cavalcando un raggio di luce. Furono i riflettori a baciare lui negli studi televisivi di Chicago, mentre scarnificavano il volto di Nixon, e a far credere ai telespettatori che avesse vinto il duello, mentre gli ascoltatori, nell’oscurità delle radio, avevano concluso il contrario. Era stata la luce del mattino riflessa dall’oceano Atlantico in casa Kennedy a Hyoannis Port, dove 40 anni più tardi il figlio John sarebbe precipitato con i suo Piper tentando di raggiungerla, a giocare con i capelli al vento, i dentoni, il sorriso e a dipingere il ritratto di una famiglia senza ombre, mentre ora sappiamo quanto fosse scura l’ombra, dentro e fuori quella casa tragica. Ed è ancora la poesia della luce sul volto dei bambini, nelle mani degli adulti, negli sguardi di Caroline, negli occhi di Jacqueline, quella che le foto di Avedon catturavano , perché l’artista aveva intuito che lì stava, e avrebbe abitato per sempre, l’essenza luminosa del mito. Nella luce. Eppure nemmeno il presidente eletto, come vuole il suo titolo prima che presti giuramento il giorno 20 gennaio, aveva capito quanto sarebbe stato profondo il debito che avrebbe contratto con quelle immagini. Alla fine della lunga, noiosa sessione di pose e di scatti in un’altra delle case di famiglia - quella di Palm Beach in Florida, dove anni dopo un suo nipote, Willy Smith Kennedy, sarebbe stato accusato e processato per violenza carnale sulla spiaggia di notte, a proposito dfi buio - uscì sbuiffando che quella «era stata una mattina sprecata». Sapeva bene quanto importanter fossero i media, i setimanali patinati con le loro mnagnifiche illustrazioni, il pubblico femminile, la moda, che era la specialità di Richard Avedon, ma mancavano appena due settimane all’inauguration, all’insediamento, e la sua agenda ribolliva di impegni. C’erano i segretyari di gabinetto, cvioè i ministri, da scegliere, finanziatori elettorali da ricompensare con ambasciate o nomine altisonanti, lo staff della Casa Bianca da formasre, le interviste importanti, quelle politiche con i grandi quotidiani e i network da organizzare, il discorso inaugura, «...una nuova generazione ha impugnato la fiaccola...» da mettere a punto con Ted Sorensen, il cantore del kennedismo, il mago della parola. E proprio quel giorno Fidel Castyro aveva rotto le relazioni diplomatiche coin Washington in risposta all’embargo, disegnando i contorni di futuri errori, rischi e tragedie nucleari planetarie evitate per un soffio. Kennedy aveva acconsentito a quella stucchjevole photo session con il maestro della moda, in suoi invadenti collaboratori, i riflettori, i flash, gli ombrelli per l’illuminazione morbida e indiretta, l’immancabile rullo di carta bianca che Avedon sempre usava come sfondo per i suoi ritratti per fare contenta Jackie. Lei era un’insaziabile consumatrice di riviste di moda («tu mi stai mandando in rovina con le tue spese per abiti» l’avrebbe poi rimproverata durante una lite nello studio ovale), ammiratrice del fotografo figlio di un ebreo russo emigrato a New York. Lui neppure sapeva chi fosse. Era nervoso, irritabile, distratto. Entrava e usciva dalle stanze trasformate in studi, sempre seguito da un assistente al quale dettava note, memo, messaggi, nomi di persone das chiamare, frasi da proporre a Sorensen per il discorso inaugurale, mentre John, il bebè di neppure due mesi, alternava il sonno agli strepiti del neonato che vorrebbe dormire. «Interrompeva una dettatura per un attimo di posa e poi riprendeva senza mai perdere il filo» sbalordiva il fotografo. Non avrebbe neppure dovuto esserci. JFK, nerl serviziop per Look, il favoloso magazine fotografico che avrebbe pubblicato le immagini, ma non riusciva a non esserci. «Io non avevao chiesto niente, ero andato per ritrarre la futura First Lady, gli abiti che lei stava preparando con Oleg Cassini per il ballo ufficiale, i bambini, la famiglia, ma lo speravo, lo sapevo che il presidente non avrebbe resistito». Nel mezzo di una serie di scatti, JFK faceva irruzione, posava e scappava tra le raffiche di flomp flomp dei flash, come lontani colpi di carabina. La luce era quello che lo attirava [...] Già un altro grande fotografo dell’epoca, Orlando Suero, che aveva fatto un servizio per la rivista femminile McCall’s, ricordava infastidito che John F. «proprio non riusciva a star fuori dall’inquadratura e continuava a infilarsi dentro» irritando anche Jackie.»