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 2008  novembre 15 Sabato calendario

Wu Di, 23 anni, della provincia interna dell’Anhui ha lavorato per quattro anni a Donghuang, la metropoli esplosa dal niente fino a oltre 5 milioni di abitanti poco a Nord del confine con Hong Kong

Wu Di, 23 anni, della provincia interna dell’Anhui ha lavorato per quattro anni a Donghuang, la metropoli esplosa dal niente fino a oltre 5 milioni di abitanti poco a Nord del confine con Hong Kong. Ora però è finita. Lui ha avvolto i suoi vestiti, le scarpe nere lucide per la festa, in una borsa di tela plastificata. In una tasca cucita sulle mutande ci sono tutti i risparmi. Ha il biglietto del treno in tasca e si fa coraggio pensando che in fondo è fortunato. Il suo padrone, un taiwanese, li ha liquidati pagandoli fino all’ultimo. Altri, di un cantiere lì vicino non sono stati così fortunati. Il padrone è scappato. La radio ha spiegato che gli ordini dei giocattoli per il Natale dell’Occidente sono spariti, quindi non c’è lavoro e bisogna tornare a casa, in campagna, a zappare la terra. Questa poi potrebbe essere l’ultima crisi economica in cui il ritorno al lavoro nei campi funziona come un ammortizzatore sociale. In futuro, al prossimo ciclo depressivo internazionale, tra dieci o vent’anni, la terra divisa in piccoli lotti non ci sarà più, sarà stata concentrata e quelli come Wu Di saranno stabilmente disoccupati in città. Per ora, comunque, Pechino non suda ancora freddo per la sorte di Wu Di e i suoi milioni di compagni nella malasorte, ma certo i numeri da soli sono da capogiro. Non ci sono statistiche ufficiali ma almeno 25.000 imprese che lavoravano per l’export nella provincia del Guangdong sono state chiuse, altre migliaia stanno seguendo la stessa sorte lungo tutta la zona costiera che si allunga verso Nord fino alla una volta opulenta Shanghai. Certo, i numeri sono ancora ottimi vista l’aria di recessione globale. Il ministro delle Finanze ha ritoccato al ribasso le previsioni per il 2009 dicendo che la crescita del prodotto interno lordo sarà «solo» dell’8 per cento. A ottobre la Cina ha vantato il più grande surplus commerciale mensile mai registrato al mondo, ben 35 miliardi di dollari, ma altri indicatori sono preoccupanti. Il tasso di crescita industriale ha subito il ribasso maggiore da almeno 17 anni. Il tasso di crescita del cemento, di cui la Cina sforna la metà della produzione globale, è passato dal 26 per cento in marzo all’1 in ottobre. Nell’acciaio, di cui la Cina è patria quasi per i 2/5 del globale, gli aumenti sono passati dal +12 di marzo al -17 di ottobre. Un dato ancora più significativo arriva dalla produzione dell’elettricità, considerato un indicatore importante per l’andamento complessivo del prodotto interno lordo. Si è andati dal +17 di marzo al +4 di ottobre. Per gli inizi dell’anno prossimo il governo non si fa soverchie illusioni: le esportazioni caleranno. Pechino sta cercando di correre ai ripari e ha varato un colossale piano di stimolo economico di 4 mila miliardi di yuan, quasi 500 miliardi di euro. In teoria la Cina ha infatti le risorse per investire in infrastrutture e mettere in moto il suo consumo interno. Le riserve sfiorano i duemila miliardi di dollari, i depositi bancari sono il 150 del Pil, circa 5 mila miliardi di dollari, i profitti delle imprese statali sono arrivati al 23 per cento del Pil e i debiti in sofferenza delle banche si sono ridotti del 75 per cento rispetto a un decennio fa, il momento duro della crisi finanziaria asiatica. Allora la Cina se la cavò egregiamente, mentre il resto del continente veniva spazzato via. Tuttavia a quel tempo le importazioni dall’America tiravano, oggi si sono quasi spente. La prospettiva è che le spese statali in infrastrutture creino una domanda interna che sostituisca la crescita trainata dall’export. Ma questo implica comunque una transizione non semplice che significa spostare, anche fisicamente, milioni di persone da una parte all’altra del continente. Stampa Articolo