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 2008  novembre 15 Sabato calendario

Londra 1829. Nasce il primo vero corpo di polizia metropolitana dell’intero Paese. Otto anni dopo (1837) entrò a farne parte Jack Whicher, cui fu consegnata la divisa: «Pantaloni blu scuro e marsina dello stesso colore, con bottoni di metallo su cui era impressa una corona e la parola POLICE

Londra 1829. Nasce il primo vero corpo di polizia metropolitana dell’intero Paese. Otto anni dopo (1837) entrò a farne parte Jack Whicher, cui fu consegnata la divisa: «Pantaloni blu scuro e marsina dello stesso colore, con bottoni di metallo su cui era impressa una corona e la parola POLICE. Al collo doveva portare un colletto rigido chiuso da una fibbia, su cui era inciso a grandi caratteri il numero di matricola, e sotto il colletto una banda di cuoio alta dieci centimetri come protezione contro gli attentati degli «strangolatori». La marsina era dotata di tasche profonde in cui trovavano posto un manganello e una raganella di legno per le segnalazioni… un cilindro di pelle di coniglio e cuoio che pesava più di mezzo chilo, un paio di stivali alti che dovevano avere uno spessore di almeno un millimetro e mezzo, e un cinturone alto dieci centimetri, con una gran fibbia di ottone larga quindici centimetri. Gli agenti erano tenuti a indossare l’uniforme anche fuori servizio, perché non potevano mai celare la propria identità. Barba e baffi erano proibiti e per compensare molti si facevano crescere lunghi basettoni». Ecco dunque 3500 «piedipiatti» a pattugliare giorno e notte i viali sfolgoranti, le stazioni ferroviarie, gli ippodromi, i vicoli oscuri della grande città, secondo precisi e ripetitivi orari. Bastava? Sì e no. La microcriminalità di strada ne era infastidita e un po’ scoraggiata, ma quei cilindri di coniglio, quei lustri bottoni, quei basettoni, si vedevano da lontano, si evitavano facilmente. E poi capitavano crimini più elaborati dello scippo e del furto con destrezza, in ambienti lontanissimi dalla plebe di marciapiede, nel chiuso di vaste e opulente dimore delle «classi alte» vittoriane, gelosissime della loro sacra privacy. Le autorità inglesi, tentennanti ma pragmatiche, accettarono infine la formazione di una squadra speciale di investigatori (detectives, dal latino detector, colui che solleva, scopre), autorizzati ad agire in abiti borghesi: otto uomini, per cominciare. Sede: un ufficio a Great Scotland Yard. Questo gran bel libro di Kate Summerscale, ottimamente illustrato, - Omicidio a Road Hill House (trad. di Luigi Civalleri, Einaudi, pp. 364, e19,50) -, è costruito così per la gioia del lettore appassionato di storie «gialle» non dozzinali. Un affresco, anzi un ciclo di affreschi minuziosissimi, documentatissimi, sugli strati alti e bassi, cittadini e campagnoli della società vittoriana. Al centro, una villa signorile di venti stanze, a ovest di Londra, non lontano da Bath e Bristol, dove una mattina d’estate del 1860 un bambino di quattro anni scompare, la sua culla è vuota. Nella casa vivono dodici persone, il padre (alto funzionario statale), i figli di primo letto, la seconda moglie (la ex governante) e i figli di costei. Oltre a bambinaie, stiratrici, lavandaie, giardinieri, garzoni vari, che vanno e vengono per i prati e i boschi della proprietà, protetta da un alto muro, e che un piccolo fiume attraversa. Poche ore di ricerche frenetiche e il bambino viene ritrovato in una capannetta a poche decine di metri dalla casa. Assassinato e nascosto con modalità assolutamente atroci (ancora oggi, purtroppo). Si pensa subito, ovviamente, all’estraneo senza volto infilatosi surrettiziamente nella villa con i suoi sinistri propositi. Ma perfino la polizia di contea capisce che questo è il tipico «inside job». Non ci sono tracce, tutto è sbarrato meno una finestrella a metà; e il cane non ha abbaiato. L’assassino deve essere per forza uno della casa. Ma chi? Il delitto di Road Hill House diventa subito un affare nazionale. Centinaia di curiosi lì attorno, migliaia di lettere ai giornali e alla polizia, il pub di paese dove si tengono le udienze preliminari è preso d’assalto. Non c’è la tv, ma c’è in quegli anni il boom dei giornali e giornaletti locali, più di mille, coi loro cronisti che frugano, congetturano, insinuano. E’ il padre? E giù coi supposti moventi. E’ la seconda moglie? E’ la bambinaia? Sono i figli di primo letto? Si gira a vuoto, il pubblico insiste, preme. Sempre tentennanti, ma sempre pragmatiche, le autorità decidono infine di chiamare la squadra di Scotland Yard. Il prescelto è Jack Whicher, che lì è stato assunto da qualche anno e che si è distinto in parecchie operazioni delicate e rischiose (bellissimi questi raccontini di contorno). Whicher prende i suoi treni sbuffanti e arriva sulla scena del crimine. Molto è stato «contaminato» ma resta abbastanza perché Jack possa cominciare a rimettere insieme i pezzi con meticolosità infinita e il suo celebrato occhio di lince. Vede, annota, corre su e giù in calessino, confronta, precisa, stila i suoi rapporti qui felicemente riportati. Dickens lo frequentava e ammirava. Wilkie Collins se ne ispirò per il sergente Cuff, primo poliziotto romanzesco nella Pietra di luna. Divenne un personaggio popolare, anche osteggiato, criticato. Raccogliendo e ordinando indizi spesso sottilissimi giunse a una sua ben strutturata conclusione. Che non passò. Troppo inverosimile, troppo scandalosa. Ci furono fermi, arresti, vari passaggi per tribunali e carceri, ma alla fine il mistero rimase tale. Uno smacco nerissimo per la polizia e la magistratura inglesi. Whicher se ne tornò a Scotland Yard, convinto del proprio «impianto accusatorio» ma era ormai fuori gioco. Gli affidarono altre indagini, forse si sposò, forse ebbe un figlio, fu comunque sempre ritenuto un eccellente «ficcanaso». E poi, anni dopo, il colpo di scena. Ci fu una confessione spontanea che confermava tutti i sospetti di Jack. Proprio così era andata, proprio quello era il movente, proprio quella la mano che aveva impugnato il rasoio. Omicidio a Road Hill House non è un romanzo, non è una cronaca, non è un documentario, è una ricostruzione storica di alto e generoso livello, che avrebbe di certo deliziato Lytton Strachey a margine dei suoi famosi Eminents victorians. Peccato che Jack Whicher non ci fosse più con le sue intuizioni quando si presentò sulla scena l’altro grande ma irrisolto «caso» d’epoca vittoriana, i delitti di un altro Jack, detto lo Squartatore.