Massimo Gramellini, la Stampa 14/11/2008, 14 novembre 2008
Prima di parlare di giudici arroganti e omicidio di Stato, come hanno fatto nelle ultime ore politici e preti, vale la pena ricordare che il «caso Eluana» non è una disputa astratta che percorre i cieli stellati della metafisica, ma la storia vera di una persona e della sua famiglia
Prima di parlare di giudici arroganti e omicidio di Stato, come hanno fatto nelle ultime ore politici e preti, vale la pena ricordare che il «caso Eluana» non è una disputa astratta che percorre i cieli stellati della metafisica, ma la storia vera di una persona e della sua famiglia. Prima di affermare con tanta sicurezza cosa è giusto e cosa è sbagliato per tutti, cosa obbedisce alle leggi di natura e cosa no, bisognerebbe fare lo sforzo di immaginarsi nei panni di un gruppo di umani che certi problemi teorici si è trovato a viverli sulla propria pelle. Eluana Englaro aveva vent’anni quando un incidente d’auto al ritorno da una festa la ridusse in coma vegetativo. Era il 18 gennaio del 1992. Il signor Beppino, che certa pubblicistica ha fatto passare per un padre sbrigativo e degenere, cominciò a fare la spola fra gli ospedali. Andava alla ricerca di un medico che gli dicesse quel che nessun medico, in coscienza, avrebbe mai potuto dirgli: che per sua figlia esisteva una speranza microscopica di ritornare in vita. Ogni volta che usciva da un responso funesto, il signor Beppino non si arrendeva. Si limitava ad abbassare le aspettative. Se all’inizio cullava ancora il sogno di riabbracciare una Eluana saltellante, col passare dei mesi sarebbe stato disposto ad accontentarsi di vederle muovere un braccio, un mignolo, un ciglio di quell’occhio raggrumato nella fissità che spiava dal bordo di un lettino, in una clinica di Lecco, per ore intere. Gli sarebbe bastato sentire la voce di sua figlia dire parole anche prive di senso, anche con un timbro diverso da quello che lui ricordava nel cuore, purché quei suoni uscissero dal petto di Eluana e la riconnettessero in qualche modo alla vita. Non mollò facilmente la presa, Beppino. Per cinque anni combatté la sua battaglia disperata a favore della sopravvivenza, sebbene gli affiorasse di continuo alla mente la reazione di sua figlia quando si parlava di coma: se succedesse a me, promettimi che staccherai la spina. Ma il giorno in cui accettò la sconfitta, si buttò con la stessa pulsione in un’altra battaglia non meno disperata: quella volta a regalare a Eluana il finale di partita che lei avrebbe voluto. Degno di un essere umano. Credo che questa pulsione abbia un nome preciso: amore. Non egoismo, non disinteresse, non voglia sbrigativa di liberarsi di un peso, non senso di onnipotenza, non paura. Amore. La capacità di assumersi una responsabilità terribile fino in fondo, in nome e per conto di chi quella responsabilità non era più in condizione di esercitarla e che, ironia della sorte, sopravviveva solo grazie a quella tecnologia che proprio i teorici della vita-a-ogni-costo considerano spesso la nemica della morale. La nuova battaglia del signor Englaro è durata fino a ieri sera. In assenza di una legge in materia, di sua figlia hanno parlato tutti, dai preti ai politici, dai medici ai giornalisti. Ma l’ultima parola, come è giusto che sia in uno Stato di diritto che confina col Vaticano ma non ne fa più parte da oltre un secolo, è toccata alla magistratura suprema: la Corte di Cassazione. Li hanno chiamati giudici arroganti, perché si sono «arrogati» una decisione sul destino di Eluana. Ma come dovremmo chiamare le istituzioni lombarde che non intendono eseguire nelle loro strutture sanitarie una sentenza della Repubblica italiana? E i politici che, agitando lo spettro di un’eutanasia generalizzata, ritardano da anni una legge sul testamento biologico che consenta almeno a chi si trova nelle condizioni di Eluana - nessuna possibilità di miglioramento, volontà manifesta del paziente - di disporre liberamente del proprio destino? MASSIMO GRAMELLINI PER LA STAMPA DI VENERDì 14 NOVEMBRE 2008