Alberto D’Argenio, la Repubblica 14/11/2008, 14 novembre 2008
BRUXELLES
Mandare in pensione le donne impiegate nella pubblica amministrazione con cinque anni di anticipo rispetto agli uomini è una discriminazione contraria alle regole europee. Lo hanno stabilito ieri a Lussemburgo i giudici della Corte di giustizia Ue, il massimo organo dell´Unione, condannando la legge italiana del 1992 secondo la quale le impiegate pubbliche vanno in pensione a 60 anni, mentre i loro colleghi maschi a 65. Ora il governo dovrà correre ai ripari equiparando le soglie per evitare pensanti sanzioni europee.
«Mantenendo in vigore una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse a seconda del sesso, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi sanciti dall´articolo 141» del Trattato Ue, hanno sentenziato i giudici europei. La causa era stata avviata da un ricorso della Commissione Ue, convinta che l´attuale regime, fissato da un decreto del 1992, fosse "discriminatorio". La norma in questione ha stabilito che i dipendenti pubblici hanno diritto alla pensione di vecchiaia Inpdap alla stessa età prevista dal sistema gestito dall´Inps: 60 anni per le donne e 65 per gli uomini. L´Italia si è difesa sostenendo che i limiti di età sono uniformemente stabiliti per i lavoratori del settore pubblico e di quello privato, con un principio dalla "valenza generale" e pertanto non discriminatorio.
Roma ha anche argomentato che la diversa condizione è giustificata dall´obiettivo di eliminare discriminazioni a danno delle donne.
Ragionamento rovesciato dalla Corte, secondo cui una diversa età pensionabile «non compensa gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici donne e non le aiuta nella loro vita professionale, né pone rimedio ai problemi che esse possono incontrare nella loro carriera». E la sentenza dà ragione a un gruppo di parlamentari del Pd, tra cui Emma Bonino e Pietro Ichino, che appena due settimane hanno scritto al ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, chiedendo proprio di modificare la norma condannata ieri. Nella lettera si sottolineava che in un sistema in cui il numero di anni di contributi determinano l´importo della pensione, stabilire per legge che una donna lavora meno a lungo di un uomo costituisce una discriminazione. Insomma, il gentil sesso recepisce una pensione inferiore a quella degli uomini. Inoltre mandare in pensione le donne prima aggrava i costi legati alla spesa previdenziale. Di avviso contrario la segretaria confederale della Cgil, Morena Piccinini, secondo cui la sentenza «non è condivisibile». «E´ singolare - ha affermato - che venga interpretata come discriminatoria una norma pensata e voluta per agevolare le donne offrendo loro una opportunità in più: non è vero che le donne del settore pubblico, così come quelle del settore privato, sono costrette al pensionamento al raggiungimento dei 60 anni, ma è vero il contrario, e cioè che la parità di trattamento è garantita dalla possibilità di lavorare fino a 65 anni, fatta salva la scelta di anticipare il pensionamento a 60 anni».
ALBERTO D’ARGENIO PER LA REPUBBLICA DI VENERDì 14 NOVEMBRE 2008